Perché non può esistere un’Europa unita in contrapposizione con gli Stati Uniti

26 febbraio 2019
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Il testo è tratto da un intervento tenuto lo scorso 16 febbraio, in occasione del primo evento pubblico promosso dall’Associazione culturale Europa Atlantica 

Siamo in una fase di difficoltà in cui esiste un problema europeo. C’è una “questione europea” che si riflette in molti aspetti della nostra vita politica, della nostra vita sociale e della nostra vita economica. Per quanto come Paese noi siamo focalizzati quasi esclusivamente sul dibattito di politica interna che verte soprattutto sulla determinazione del livello ottimale di tasse, spese, deficit e quant’altro, purtroppo è nella politica internazionale – che come Paese tendiamo colpevolmente a trascurare – la radice in cui può essere trovata la soluzione dei principali problemi che ci vincolano. Un Paese si sviluppa meglio se la sua politica estera è indovinata. Un Paese va in rovina se sbaglia le scelte fondamentali della politica internazionale.

Come è cambiata l’identità europea dopo la Guerra fredda

Il problema che noi abbiamo è che apparteniamo – parlo per me ma anche per le persone che hanno tra i 5-10 anni più di me o 5-10 meno di me – a una generazione che sta vivendo una fase di transizione. Siamo cresciuti in un mondo fatto in un certo modo, con tante certezze: avevamo il bipolarismo, avevamo la sfida rappresentata dal comunismo sovietico, sapevamo da che parte stavamo e da che parte stavano i nostri avversari, con cui peraltro cercavamo continuamente di negoziare e dialogare perché nessuno voleva arrivare ad una guerra che sarebbe stata necessariamente anche una guerra nucleare di straordinaria distruttività. Cosa è successo da allora? È successo che è sparito il “grande nemico” e alcune condizioni che avevano favorito il processo di integrazione europea così come lo abbiamo conosciuto sono venute meno, senza che neanche si sia avviata una riflessione molto approfondita su tutte le implicazioni che dal mutare dello scenario internazionale sarebbero discese su ciascuno dei nostri Paesi e anche di noi come individui. Un conto è la Comunità economica europea della Guerra fredda, con la Germania ovest dentro. Un altro conto è l’Unione europea con al centro una Repubblica federale tedesca che è un grande Stato germanico, uno Stato che di fatto occupa la posizione centrale nel nostro continente. Un conto, poi, è un’Europa occidentale che era un’appendice di un Occidente centrato sugli Stati Uniti e che si trovava alla frontiera con il mondo dell’“Oriente”, un altro conto è un’Europa che per giustificare se stessa si propone come un attore che vuol contare. È legittimo, ma nel momento stesso in cui per risolvere i nostri problemi andiamo a dire alla gente che vogliamo un’Europa “protagonista nel mondo”, gli attuali grandi protagonisti della politica internazionale – Cina, Russia, Stati Uniti – non rimangono passivi e non possono considerare neutrale questo tipo di narrazione politica, ma si preoccupano perché non c’è solo da parte nostra, di noi europei e di alcuni europeisti, la voglia di dire “vogliamo arricchirci” che nessuno può negarci come obiettivo. Nel momento in cui noi diciamo che vogliamo unirci per essere più forti, per contare di più e contribuire più attivamente noi a dettare le regole del gioco in questo pianeta, è chiaro che ben difficilmente gli altri si stringeranno e faranno spazio per darci un posto a sedere. Questa è la prima difficoltà: nel momento stesso in cui noi tentiamo di sostituire il nazionalismo delle cosiddette “piccole patrie” con un nazionalismo europeo, noi rischiamo di attirare una reazione da parte di chi ci è vicino e di chi si sente minacciato che come Europa non abbiamo ancora la coesione necessaria a poterla fronteggiare.

L’altro aspetto fondamentale che non va dimenticato è che proprio le condizioni della Guerra fredda hanno fatto sì che di fatto il processo di integrazione europea venisse promosso e guidato non da noi Europei, ma dagli Stati Uniti. Non esiste un’Europa integrata costruibile contro gli Stati Uniti o antagonista rispetto agli Stati Uniti, su questo dobbiamo essere chiari. Non solo perché non è opportuno da un punto di vista valoriale, ma perché proprio non ce lo possiamo permettere, non siamo all’altezza di una situazione del genere. Senza la leadership americana sull’Occidente, in Europa si riapre la competizione per determinare chi comandi. Non è un caso che la crisi dell’europeismo si identifichi con una rinascita del sentimento anti-tedesco in tutta Europa. Poi ognuno può trarre le conseguenze che vuole. I Francesi per esempio, perdonatemi la battuta sportiva, mi danno l’idea di cercare l’abbraccio con la Germania allo stesso modo in cui un pugile che sta prendendo tanti pugni cerca di avvinghiarsi al suo avversario per rimanere in piedi. Questa è la situazione. Non mi spiego in un altro modo il Trattato di Aquisgrana, un Trattato in cui c’è una Francia che tenta di vincolare a sé la Germania ma che allo stesso tempo tende anche a stabilire un direttorio all’interno dell’Europa che è contro di noi. Qualcuno in Germania ha detto ad alcuni nostri politici che hanno visitato quel Paese pochi giorni fa che noi potremmo sempre farci avanti e chiedere di essere ammessi ma, alla luce di quanto accaduto pochi giorni fa con la Spagna, dubito che questa sia stata un’offerta sincera. Perché l’allargamento di Aquisgrana alla Spagna ha preso la forma di un invito rivolto dal ministro degli Esteri tedesco a Berlino nella sede dell’Ambasciata di Spagna. Quindi dobbiamo essere molto attenti a quello che succede.

La NATO come interesse nazionale dell’Italia

Le condizioni della nostra politica in Europa, le strade che noi abbiamo per perseguire i nostri interessi nazionali in Europa si sono purtroppo drasticamente ridotte. Prima eravamo abituati a giocare un po’ la Francia contro la Germania e, quando serviva, la Germania contro la Francia. Ora lo spazio per farlo non c’è più. Ecco perché, per noi, gli Stati Uniti sono tanto importanti. E che cos’è che contiene al meglio l’alleanza tra noi e gli Stati Uniti se non la NATO? Per questo motivo per noi la preservazione della NATO rappresenta un interesse nazionale fondamentale. Qui vengo al messaggio forte che vorrei lanciare. L’Europa o è “atlantica” oppure non è, si disfa. Ne dobbiamo essere consapevoli. In questo momento in Europa non abbiamo altra possibilità di diventare forti negozialmente se non rafforzando il nostro rapporto bilaterale con gli Stati Uniti. Non ci sono alternative. Nella speranza che poi si determinino, all’interno della Francia o della Germania, delle condizioni politiche che poi permettano di riavviare i nodi di un dialogo. L’impressione è che al momento in Europa stiano prendendo piede forze centrifughe sempre più potenti. Prima citavo l’Europa delle “piccole patrie”. Dipende. Forse i Tedeschi non si sentono una “piccola patria”. Di sicuro i Francesi non si sentono di appartenere ad una “piccola patria”. Gli Inglesi, che stanno con un piede fuori e uno dentro, stanno pensando di aprire nuove basi militari in Oman, in Bahrein, nel Mar Cinese, nei Caraibi, mandano una loro portaerei davanti alle coste della Cina: questi non sono atti di un Paese che si sente una “piccola patria”. Certo, poi ci stanno il Belgio, il Lussemburgo, l’Olanda, la Spagna, il Portogallo… Ma ci sono Paesi in Europa che probabilmente hanno ripreso a pensare i propri interessi in termini nazionali e di affermazione nazionale. Noi – rispetto a questo – siamo probabilmente un po’ in ritardo, questo spiega perché talvolta magari reagiamo in modo umorale, istintivo, poco ponderato. Siamo italiani, dopotutto… Forse ciò dipende anche da una circostanza: in un momento tanto complesso, in cui le sfide assumono una molteplicità di forme, forse il nostro Paese soffre particolarmente perché ancora non è riuscito a dotarsi di una capacità di affrontare i problemi che implicano una presa di decisione strategica. Abbiamo delle eccellenti amministrazioni, ognuna delle quali persegue in maniera ottimale il mandato che le è stato dato. Dove abbiamo difficoltà è nel fare “l’assieme”. Non riusciamo per esempio a capire con facilità dove sono le “linee rosse”. Vogliamo fare affari con i Cinesi, per esempio, ma fino a che punto possiamo farlo senza che gli Stati Uniti ci vengano a dire: “Da che parte state?”. Allora, tra le tante cose che per me è necessario fare in questo Paese c’è anche il fatto di pensare alla creazione di una istituzione, di un foro, in cui delle competenze altissime – provenienti dai dipartimenti italiani che hanno la maggior proiezione esterna – si confrontano sui problemi, assistendo il Governo e il Presidente del Consiglio nella presa di decisioni di maggiore importanza.

L'autore

è ricercatore presso il CeMiSS, Centro Militare di Studi Strategici. Oltre ad essere consigliere scientifico di Limes, Rivista Italiana di Geopolitica, insegna Studi Strategici al Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS.


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