E se fossimo all’alba della disintegrazione europea? Francesco Saraceno legge “Gli ultimi giorni dell’Unione” di Ivan Krastev
28 febbraio 2019
Il collasso dell’Unione Europea, che abbiamo sempre ritenuto inimmaginabile, è non solo possibile, ma quasi inevitabile. Il progetto di integrazione continentale ha il fiato corto, stretto tra il lento sbiadirsi dell’originario progetto di pace uscito dalla Seconda guerra mondiale, la fine della centralità geopolitica portata dal crollo dell’Unione Sovietica e la mancanza di un progetto politico per l’avvenire. Il detonatore che potrebbe segnare l’inizio della fine sarà la crisi dei rifugiati, che rappresenta un’autentica minaccia per l’identità europea, e non fa altro che alimentare il populismo di ritorno, che a sua volta minaccia i compromessi politici consolidati dell’Europa, il cosmopolitismo culturale, l’impegno per valori universali come i diritti umani e la solidarietà sociale. Una società già provata da disuguaglianze crescenti, e definitivamente destrutturata da dieci anni di crisi e di mala gestione della politica economica, ha infine abbracciato gli egoismi nazionali che i cantori dell’Unione credevano definitivamente sepolti, ripiegandosi su sé stessa.
Con Gli ultimi giorni dell’Unione, Ivan Krastev, direttore del Centre for Liberal Strategies di Sofia e permanent fellow dell’Institute for Human Sciences (IWM) di Vienna, ci consegna un’analisi disincantata delle sfide che il progetto europeo fronteggia, dopo una decade di crisi economica e politica. L’analisi di Krastev è impietosa, e sembra non lasciare spazio a speranze.
Gli ultimi giorni dell’Unione, contraddistinto dalla brutale sincerità dell’autore (cresciuto quando la Bulgaria era ancora parte del blocco sovietico, del cui crollo improvviso Krastev fu testimone), ci obbliga a interrogarci sulle cause (e, si spera, sui possibili antidoti) del declino del Vecchio continente. L’età d’oro del progetto europeo è stata marcata da stabilità e giustizia sociale, dal trionfo delle democrazie liberali, da un’interazione virtuosa tra Stato e mercato, da cooperazione crescente, e da un progressivo superamento, nella coscienza collettiva, degli egoismi nazionali. A partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo, le sfide della globalizzazione hanno messo in crisi questo modello e il suo motore principale, quelle classi medie ormai impoverite, strette fra un’élite globale di plutocrati sempre più ricchi che di fatto si sono sottratti al patto sociale, e le classi medie dei Paesi emergenti, che reclamano il posto che compete loro sulla scena globale. A questo si aggiunge in economia un “Nuovo consenso”, anch’esso sviluppatosi negli anni Ottanta e che, in nome di una supposta supremazia dei mercati, rifiuta un ruolo proprio a quello Stato regolatore e al patto sociale che avevano costituito due dei pilastri del modello sociale ed economico europeo. Non si tratta, è ovvio, di un fenomeno solamente europeo: basti vedere la dinamica politica e sociale che ha quasi ineluttabilmente portato al potere Donald Trump negli Stati Uniti. Tuttavia, due elementi rendono a mio avviso questo processo particolarmente destabilizzante in Europa: in primo luogo, è proprio nel nostro continente che il vecchio modello basato sul compromesso sociale e sull’intervento pubblico nell’economia contrasta di più con l’avvento di un capitalismo senza regole. È qui che il dibattito su ruolo e copertura della protezione sociale è stato progressivamente cannibalizzato da quello sul debito pubblico, dove i partiti tradizionali (la destra sociale e la socialdemocrazia, divenuti pressoché indistinguibili sui temi sociali) hanno abbracciato l’ossessione neoliberale per la riduzione del ruolo dello Stato, accettando l’egemonia culturale del Nuovo consenso. Inoltre, è proprio nel quadro dell’ibrido europeo (con gli Stati che hanno ampiamente ceduto sovranità a un’entità sovranazionale che tuttavia non è compiutamente federale) che morde di più il cosiddetto “trilemma” di Dani Rodrik, ossia il fatto che sia impossibile perseguire simultaneamente la democrazia, la sovranità nazionale e la globalizzazione economica, e che uno di questi obiettivi debba per forza essere sacrificato per ottenere gli altri due. L’élite intellettuale, accettando i dogmi di una globalizzazione virtualmente senza regole – si pensi all’inconcludenza del dibattito sulla tassazione delle cosiddette GAFA, le grandi multinazionali del web –, ha rinunciato quasi senza combattere alla difesa e alla necessaria riattualizzazione del vecchio compromesso sociale che aveva determinato il successo del progetto europeo. La crisi d’identità a questo punto è stata inevitabile: da un lato, come sottolineato da Rodrik, è diventato impossibile effettuare scelte democratiche a livello di Stati nazionali; dall’altro, essendo la cessione di sovranità all’Unione Europea una chimera, i popoli europei maltrattati dalla globalizzazione hanno cercato spazi di democrazia nel sovranismo e nella protezione dell’interesse nazionale.
È per questo che non si può non concordare con l’opinione di Krastev, secondo il quale la crisi migratoria rappresenta una sfida che l’Unione Europea, nelle condizioni attuali, non può vincere. In questo contesto si è rivelata inutile, se non controproducente, l’invocazione di “più Europa” da parte di un’élite che non vuole più, o non è più in grado, di proporre un capitalismo delle regole. Finché questo non avverrà, il “treno della disintegrazione” ormai partito dalla stazione di Bruxelles avanzerà imperterrito, e la difesa dell’interesse nazionale sarà la sola piattaforma politica in grado di intercettare il consenso. Rodrik stesso, non sospettabile di simpatie sovraniste, ritiene che la democrazia, la protezione del contratto sociale e la sovranità nazionale debbano prevalere sulla globalizzazione, almeno fin quando questa non sarà incanalata da un sistema condiviso e credibile di regole, e resa compatibile con le scelte democratiche di Paesi, o unioni di Paesi, sovrani.
Il volume di Krastev è prezioso soprattutto perché mostra l’urgenza di un cambio di rotta. La sua profezia di “fine dell’Europa” finisce per assomigliare più a un monito, che al compiaciuto grido di vittoria di un euroscettico incallito. Gli ultimi giorni dell’Unione è un pugno in faccia alle élite compiaciute che soffrono di “disturbo autistico” (sono ancora parole di Krastev) e si ostinano a non vedere lo stato in cui versa il nostro disastrato continente. Ma chiarendo magistralmente come e perché l’Europa immaginata dai padri fondatori abbia perduto l’anima, e sottolineando quanto quel modello che oggi è in crisi rappresentasse in passato un motore di progresso sociale e un esempio da seguire, il saggio lascia aperto uno spiraglio importante, in cui è urgente e doveroso riuscire a introdursi. C’è un solo cammino possibile, che consiste nel ritrovare un ruolo per quello Stato regolatore che negli anni d’oro della socialdemocrazia e della destra sociale garantiva stabilità sociale e macroeconomica, e quindi poneva le basi per l’investimento, l’innovazione e la crescita. È difficile immaginare che questo avvenga a livello nazionale, a meno che non si voglia predicare l’autarchia. Che il recupero di una piena sovranità nazionale preconizzato da populisti di ogni bordo possa portare a maggior benessere e a più protezione dalla globalizzazione selvaggia sembra almeno altrettanto utopico del sogno federale la cui agonia Krastev certifica con disperante efficacia. Per questo la cooperazione internazionale, nonostante il cammino sia davvero arduo, rimane l’unica via percorribile. E affinché questa cooperazione conduca a un cambio di rotta occorre che le élite europee abbandonino la subordinazione culturale al Nuovo consenso e recuperino, a livello continentale, quella capacità di conciliare Stato e mercato che hanno perso da troppi anni. È uno sforzo titanico, per una classe dirigente particolarmente autoreferenziale. Si potrebbe sommessamente suggerire loro di cominciare con la lettura di Gli ultimi giorni dell’Unione.
Parigi, gennaio 2019
Il testo proposto di Francesco Saraceno è stato originariamente pubblicato da Luiss University Press come prefazione al libro Gli ultimi giorni dell’Unione di Ivan Krastev

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