Notre Dame brucia, ed ecco perché a noi fa così male
16 aprile 2019
Che cosa succede nel nostro sistema di valori e nei nostri sentimenti quando accade un evento impressionante come l’incendio di Notre Dame? Sull’impressione non si possono avere dubbi. Le poche voci discordi hanno osservato che, tutto sommato, si tratta di un’entità inanimata: ci sono vite umane che si perdono, e in gran numero, tutti i giorni in questo mondo – le reazioni sono minori, o meno accese. Eppure, anche costoro – solo per il fatto di esprimere quest’idea controcorrente proprio adesso – mostrano almeno implicitamente di partecipare al generale clima di emozione.
Ma i più lamentano la perdita irreparabile (o comunque molto difficilmente riparabile). Il pathos delle reazioni induce a pensare che la questione non sia solo storica o estetica. Le fiamme di Notre Dame infliggono una perdita morale. Ma che cosa abbiamo perso esattamente? Abbiamo perso l’identità europea, o occidentale, come hanno detto alcuni? Abbiamo perso un prodotto insostituibile dello spirito umano? È svanita una cosa d’immensa bellezza? È perita una testimonianza storica di un passato che non può ritornare, e ha un valore proprio perché irrecuperabile ?
Queste risposte potrebbero essere tutte vere. Ma esse hanno conseguenze e significati diversi. E per capire la radice delle nostre emozioni di fronte alle fiamme sopra la guglia della cattedrale, per comprendere da che cosa nasce il nostro senso di perdita, e se esso sia veramente ben fondato, bisogna dipanare queste conseguenze e significati. Bisogna articolare un’etica del patrimonio culturale. Bisogna capire su che cosa si fonda il sentimento che quella di Notre Dame sia stata una perdita irreparabile – che la cattedrale, per come si è conservata fino a prima dell’incendio, sia insostituibile.
Peraltro, riflettere su questi temi non è di poca importanza. Accadimenti come quello di Notre Dame mettono evidentemente in questione il nostro rapporto col passato – col nostro passato di europei e occidentali, col nostro passato di singoli individui che sono tutti, più o meno, andati a Parigi e hanno visto Notre Dame, col passato altrui, di chi crede in altri simboli. E il rapporto col passato colora il senso della nostra identità e del nostro presente. Una consapevolezza maggiore di quel che si agita sotto il nostro smarrimento forse aiuterebbe a non buttarla sempre e troppo semplicemente in battaglia ideologica, agitando lo spettro della contrapposizione con l’Altro.
Un aspetto del senso di perdita, o una sua fonte, è il sentimento che certe cose – bellezze artistiche, testimonianze del passato, forse anche pezzi di natura (come paesaggi, luoghi particolari, alberi centenari) – vadano conservati, posti al riparo dalla distruzione, tramandati alle generazioni future. Tuttavia, quest’atteggiamento non è affatto specifico o tipico del nostro senso del valore del patrimonio culturale. Qualsiasi giudizio di valore conduce a voler conservare le cose di valore – a volerle difendere dagli attacchi. Le relazioni affettive hanno valore, poniamo, o ha valore l’eguaglianza di fronte alla legge. Le prime hanno valore, assumiamo, perché rendono piena e felice la vita di chi ne fa esperienza, la seconda ha valore perché garantisce la dignità e il rispetto di sé dei cittadini, i quali, a loro volta, permettono di sviluppare un senso di sé che fa, di nuovo, piena e felice la vita sociale di chi viva in uno Stato egualitario. Chi sottoscriva queste affermazioni difenderà certe relazioni affettive (per esempio, promuovendo certe politiche a favore della famiglia), o cercherà di preservare (ed eventualmente di aumentare) l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (ad esempio, difendendo e migliorando le istituzioni dello Stato di diritto).
Tornando alla cattedrale di Notre Dame. Possiamo dire anche in questo caso che la presenza della cattedrale a Parigi rende le nostre vite piene e felici? In un certo senso sì (se la cattedrale sorgesse su un pianeta disabitato, forse la sua distruzione ci sarebbe indifferente): ma forse non basta – forse non è tutto quel che il senso di perdita che proviamo esprime. Anche perché, se fosse solo per il godimento estetico che abbiamo perso, avrebbero ragione quelli che richiamano la nostra attenzione sulle vittime delle varie guerre in corso: in quel caso, ci sono relazioni affettive che vengono bruscamente troncate, e sofferenze umane cospicue, e le guerre sono un caso estremo e lampante di diseguale trattamento: si tratta, abbastanza ovviamente, di disgrazie ben più gravi. Per riscattare il nostro sgomento, dobbiamo articolare la caratteristica specifica della cattedrale di Notre Dame – e del patrimonio culturale – che ne fa un oggetto di valore.
Nella nascente discussione sull’etica del patrimonio culturale e della sua conservazione sono state fatte varie proposte. Si potrebbe dire, ad esempio, che il problema è che Notre Dame ha una storia – una lunga storia –, e la sua distruzione mette fine a questa storia. Ma questo non può bastare: tutto ha una storia, più o meno lunga. In ogni momento, nel mondo, una cosa che risale a centinaia di anni fa viene distrutta, o perisce. Un sasso di fiume, fra altri sassi, risalente all’800 d.C. ha probabilmente finito di venire eroso in questo momento: è diventato un granellino di sabbia, e quel granellino di sabbia è destinato a sfaldarsi, in granelli sempre più piccoli. Ma tutto questo non ci fa l’impressione dell’incendio di Notre Dame.
Allora, si potrebbe dire che la cattedrale è qualcosa che le generazioni del passato hanno edificato con sforzo – uno sforzo immane, uno sforzo che noi non possiamo replicare. Qundi, si potrebbe pensare che la perdita derivi dal nostro dovere di preservare, per noi e per le generazioni future, il frutto del lavoro, dell’impegno, dell’investimento dei nostri predecessori nella storia dell’umanità. Quest’idea coglie forse qualcosa del nostro senso di reverenza per la cattedrale, e della perdita. Ma non è ancora abbastanza specifico: per le stesse ragioni, forse, dovremmo conservare idee ed istituzioni – la democrazia e l’idea di emancipazione delle donne sono un frutto di tanta fatica di attivisti e studiosi del passato. E, inoltre, se il valore della cattedrale stesse nel suo essere un prodotto del passato – di certi avvenimenti passati –, il suo valore sarebbe strumentale, o simbolico: ciò che ha valore non è la cattedrale, ma l’ingegno umano e la storia degli esseri umani. E, peraltro, di testimonianze dell’ingegno e della laboriosità umane ce ne sono molte. Per esempio, alcune di esse sono replicabili: le migliaia di copie di un giornale, o di un gadget di plastica sono frutto di grandissimo impegno umano – di un progresso tecnologico inimmaginabile prima. Eppure, la perdita di un giornale o di un piccolo pezzo di plastica non ci impressiona.
Il valore potrebbe stare, forse, nell’unicità, o nella rarità: c’è una sola Notre Dame, ed è bruciata. Ma, se questo è il problema, basterà ricostruirne una copia esatta: nel momento in cui l’originale è scomparso, la copia non è neanche più una copia – e l’unicità è salva. Non dobbiamo piangere la perdita di Notre Dame: dobbiamo pagare degli ingegneri per riprodurla, e magari farla ignifuga.
Forse, si potrebbe ribattere, il valore di Notre Dame è sì simbolico e storico, ma non è tanto l’essere un prodotto effettivo di una storia di progresso o di una storia culturale. Il suo valore è nell’essere un simbolo unico di quella storia, nell’essere un veicolo tramite cui noi possiamo ripensare e ricordare la nostra storia. Notre Dame è il testamento, il lascito dei nostri padri: essa esprime il fatto che loro sono esistiti e che la loro, e la nostra vita, ha un senso. E forse, in quanto simbolo, Notre Dame è anche l’oggetto dei nostri sentimenti di affezione e reverenza per questo passato.
Ma anche da queste premesse non discende l’unicità di Notre Dame, e il senso di irreparabilità che proviamo. Simboli del passato ce ne sono tanti. E tutto può diventare simbolo. E anche i monconi bruciati di Notre Dame possono simboleggiare il passato della storia europea – anzi, forse sono anche un simbolo più incisivo.
Potrebbe essere una questione che ha a che fare più con noi, che con la cattedrale. Si potrebbe suggerire che è proprio la reverenza e lo sgomento che proviamo di fronte a Notre Dame ad avere valore, e non la cattedrale medesima. Questi sentimenti articolano il nostro rispetto per il passato, per il suo significato, per il valore della cultura umana, per il senso dell’impegno e dell’ingegno. Ma allora non è successo nulla di grave: la cattedrale è bruciata, sì, ma noi abbiamo provato i sentimenti giusti. Se è il riconoscimento della perdita ad avere valore, e non è l’oggetto perduto ad averlo, allora, in realtà, non c’è nessuna perdita.
Ritorniamo di nuovo al valore estetico, a questo punto: ovviamente, la cattedrale bruciata sarà anche un simbolo del passato, sarà anche il prodotto finale dell’abilità di generazioni di maestranze, sarà anche un’occasione di provare sentimenti che hanno valore, ma è meno bella della cattedrale integra (o quasi). Ma il valore estetico giustifica lo sgomento che proviamo? Giustifica i milioni di euro che, con tutta probabilità, verranno spesi per il restauro, togliendoli ad altre cause? Non è chiaro. L’incendio di Notre Dame rimane un evento impressionante e un mistero anche concettuale: sappiamo che il patrimonio culturale ha valore, ma non è chiaro in che modo e perché. Ma forse, alla fin fine, dovremmo guardare con meno drammi alla prospettiva di una ricostruzione fedele dell’originale. Forse, alla fine, l’incendio produrrà una copia – che non sarà neanche una copia, dato che l’originale praticamente non esiste più – che avrà quasi lo stesso valore. Forse, alla fine, Notre Dame è immortale, e rinasce, come la Fenice, dalle sue ceneri.
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