“Grazie Signora May”? Voler imitare la Brexit è pericoloso. Lo dimostra (anche) il futuro dell’industria dell’auto

6 maggio 2019
Editoriale Open Society off
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Nel 1996 uscì un bel film ambientato nel Yorkshire devastato dalle politiche neoliberiste di Margaret Thatcher e dal suo attacco ai minatori inglesi. Una classe lavoratrice devastata dalle trasformazioni del lavoro e dell’industria, e profondamente divisa al suo interno. Il titolo originale era felicemente ambiguo: “Brassed off” significa licenziati, ma anche arrabbiati. Per una volta, il tradimento apportato dal titolo dato dalla distribuzione italiana – “Grazie Signora Thatcher” – aveva un suo senso. Anche l’esito del referendum sulla Brexit è stato, non del tutto a torto, attribuito alla crisi del manifatturiero e alla profonda insoddisfazione che attraversa il mondo del lavoro in vaste aree del Regno Unito. Ci avviamo ad un futuro in cui, malgrado l’ormai evidente incapacità di gestire gli esiti del referendum o di reagirvi tanto del primo ministro inglese quanto del principale partito di opposizione, dovremo dire: “Grazie Signora May”?  O, persino più appropriatamente, “Grazie Signor Cameron”? Per dare alcuni elementi utili per una possibile risposta, vale la pena di presentare alcuni ragionamenti e dati sull’industria e in particolare sul settore dell’auto. Mostreremo, attraverso lo studio del caso dell’auto, quali pericoli la Brexit comporti per l’occupazione e per il sistema industriale inglese. Il caso in questione esemplifica un problema più generale e cioè la necessità di integrare ogni discussione concernente l’euro con un’attenta analisi dei processi di integrazione industriale realizzatisi nell’Unione Europea.

Come è cambiata la manifattura europea dagli anni 90

A partire dalla liberalizzazione del movimento dei capitali degli anni ’90 si è progressivamente costruita in Europa una struttura industriale integrata che copre l’Unione Europea con i suoi 28 membri. Abbiamo a che fare con filiere produttive organizzate gerarchicamente attorno ad alcune imprese leader. L’impresa industriale si è ormai trasformata radicalmente ed esibisce forme più o meno evolute di integrazione della manifattura in senso stretto con i servizi, dando origine a sistemi manifatturieri ibridi, e addirittura a veri e propri ecosistemi industriali.

Si tratta di una rete di imprese strutturata su una divisione del lavoro che per comporre il bene finale  comporta il continuo spostamento fisico di materiali, parti e sistemi. I movimenti in questione attraversano le frontiere nazionali, talora ripetutamente. La ragione è che ad ogni livello della filiera si incontrano degli ulteriori sottosistemi di fornitura. Si è in questo modo costruita una fitta rete di interscambi che investono l’intero ciclo della manifattura in senso proprio.

Si è detto che i servizi vengono progressivamente integrati all’interno della produzione manifatturiera. I servizi qui rilevanti sono di due tipi. Da un lato, abbiamo quelli che rappresentano un input intermedio nello stesso processo produttivo. Dall’altro, abbiamo quelli, spesso di natura digitale, che fanno sì che il prodotto possa fornire al cliente delle prestazioni specifiche: come per esempio la manutenzione predittiva per il settore delle macchine industriali, o il supporto alla guida per le automobili. Anche questi servizi, come la manifattura in senso stretto, generano un movimento commerciale transnazionale. Un discorso sullo stato e la struttura delle diverse economie non può peraltro non tenere presente che ai nostri giorni una quota significativa del valore aggiunto complessivo è costituita proprio da questo genere servizi.

Il paradigma del settore automobilistico

Il settore dell’automobile è l’esempio paradigmatico di quanto stiamo esponendo. Una grande impresa automobilistica si materializza in una filiera organizzata gerarchicamente in centinaia di impianti di primo livello, che riforniscono gli assemblatori finali con le componenti fondamentali, e migliaia di impianti di produzione di secondo livello, che alimentano la produzione di primo livello. Per avere un’idea della complessità di un  sistema produttivo del genere basti pensare al fatto che in un’auto, al di là dei componenti strutturali, ci sono 20.000 parti di dettaglio con circa 1.000 componenti chiave e diverse migliaia di combinazioni di prodotto che vanno gestite.

Stiamo parlando di uno dei settori chiave dell’industria europea, che rappresenta circa il 6% dell’occupazione totale dell’Unione Europea e l’11% di quella manifatturiera. Il surplus del commercio europeo che viene generato è di circa 90 miliardi. E’ costituito da 2.220 imprese – di cui 230 assemblatori finali e produttori di motori – distribuite in 25 paesi, in modo però non uniforme, né quantitativamente né qualitativamente.

Veniamo alla questione della Brexit. Qui gioca una differenza di rilievo. Si prenda il peso dell’importazione di parti che sono necessarie per assemblare in modo finale nel Regno Unito i veicoli che vengono prodotti. Nel 2017, a fronte di un output di 1,75 milioni di veicoli, dei quali 1,67 milioni erano auto vere e proprie, 14,1 milioni di parti e componenti venivano importate. Il Regno Unito esportava l’80% della propria produzione, contribuendo così al risultato economico complessivo del paese per lo 0,8%, e in modo ancora più sostanzioso a quello del manifatturiero, per l’8,1%. Il valore delle importazioni eccedeva peraltro quello delle esportazioni. Quasi la metà di queste auto sono prodotte in stabilimenti di proprietà della Toyota, della Nissan e della Honda.

La logica che ha presieduto a questi Investimenti Diretti Esteri in entrata è stata esattamente quella della possibilità di poter esportare nei paesi della Unione Europea. Secondo le regole vigenti nell’UE le auto che si possono vendere nell’area devono essere autorizzate da un’agenzia di uno dei paesi ad essa aderente. E’ evidente che l’autorità inglese cesserà di esser riconosciuta appena la Brexit si sarà compiuta. Per i nuovi modelli, le aziende dovranno rivolgersi ad agenzie degli altri paesi che saranno rimasti nella Unione.

Per le importazioni nel Regno Unito di parti e componenti, e relativamente al 2016, l’Atlas of Economic Complexity, registra un ruolo preminente della Germania, con quasi il 30% di tutte le importazioni, seguita dagli altri paesi del Centro e dell’Est europeo, con quasi il 19%, e poi del Sud, con il 23,02.

Per quel che riguarda una analisi più disaggregata dei volumi produttivi, il Financial Times documenta che più della metà di 30.000 componenti che mediamente compongono un’auto prodotta in UK vengono dall’estero, e attraversano sino a 15 paesi prima di approdare al montaggio finale. Ciascuna di queste 30.000 parti può contenere sino a 30 sotto-parti, il che rende ancora più complessa la struttura industriale. Per limitarci soltanto ad un esempio specifico, l’Honda localizzata nel Regno Unito importa il 75% dei componenti: il che si traduce in 2 milioni di componenti al giorno, che equivalgono a 10.000 container per turno di lavoro.

L’incubo della Brexit per la filiera industriale

Si capisce bene, allora, il profilarsi di un vero e proprio incubo dopo il distacco del Regno Unito dall’Unione Europea: il traffico di merci in entrata a Dover che dovranno passare per i controlli doganali non riguarda soltanto i prodotti alimentari ma la struttura stessa dell’industria. Tanto più che secondo le regole del WTO la quota sui dazi derivante dalla componentistica non nazionale è pari in media al 4,5%, e la tariffa doganale complessiva raggiungerebbe il 10%.

Per comprendere le rigidità a cui il Regno Unito deve fare fronte e che rendono problematico un aggiustamento, si tenga conto che il paese ha dei veri e propri “buchi” nella sua catena di fornitura nazionale. Per fare un esempio, le imprese domestiche non dispongono di presse sufficientemente grandi per produrre gli alberi a gomito necessari per la propria industria automobilistica; o ancora, una parte della componentistica elettronica viene attualmente assemblata in Romania per ragioni di costo. In aggiunta, va ricordato che la divisione del lavoro all’interno dell’industria automobilistica non deriva esclusivamente da ragioni di costo, ma trova la sua ragione anche nelle economie di scala. Pensare di poter sostituire produzioni europee con produzioni nazionali non è sempre fattibile.

Si spiega così la recente cancellazione di numerosi investimenti programmati, come quello per produrre il SUV X-Trail della Nissan a Sunderland. Schaeffler, un fornitore tedesco di componenti, ha annunciato la chiusura di due fabbriche nel Galles e a Plymouth, con 570 dipendenti. La Land Rover sposterà la produzione del SUV Discovery dall’impianto di Solihull, nel Regno Unito, a quello di Nitra, in Slovacchia. La BMW ha annunciato che potrebbe chiudere gli impianti che producono la Mini. La stessa cosa farà la Rolls-Royce se non potrà contare sulla catena di fornitura europea.

Da questo punto di vista ciò che può avvenire in conseguenza di una Brexit che passa dall’auspicio alla realtà si rivela come esperimento cruciale sulle implicazioni della costruzione di un sistema industriale integrato basato sulla piena libertà di movimento dei capitali. Nel libro che abbiamo scritto insieme con Mariana Mortágua (“Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea”, Rosenberg & Sellier, Torino 2019) abbiamo sostenuto che l’uscita dall’euro è la risposta alla domanda sbagliata. La ragione sta esattamente nel fatto che non è possibile ragionare di euro, ma neanche di Unione Europea, se non guardando con attenzione alle profonde trasformazioni della finanza e della produzione, alla integrazione dei bilanci e delle reti produttive: il che coinvolge in modo essenziale le catene trans-nazionali del valore, l’industria, la manifattura, il lavoro.

Il caso della Brexit, di cui qui abbiamo indagato solo un aspetto, va esaminato impiegando lo stesso metodo, e guardando allo stesso orizzonte. Una crisi politica, una crisi di fiducia, e qualunque altra possibile incertezza, anche solo percepita, potranno innescare la chiusura di impianti. Improbabile che le lavoratrici e i lavoratori brassed off a causa della Brexit avranno negli anni a venire molte ragioni per ringraziare la Signora May, il Signor Cameron, e la loro inconcludente opposizione.

Gli autori

Direttore della Fondazione Claudio Sabattini


Professore ordinario all’Università degli Studi di Bergamo


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