Energia rinnovabile: un cambiamento che parte dall’Europa
22 maggio 2019
Nella settimana che precede le elezioni europee, Luiss Open ripropone alcune delle più interessanti riflessioni recenti sul presente e sul futuro dell’Unione.
La transizione verso l’energia rinnovabile: un’opportunità per l’Europa
Dinamiche complesse della trasformazione energetica pongono l’Unione europea di fronte a scelte sostanziali che interessano i governi, l’industria, i cittadini, i soggetti che offrono nuovi servizi. Non possono che attivarsi forze contrastanti anche in questo contesto: alcune, favorevoli al cambiamento, vengono da quella parte innovatrice del mondo industriale che coglie le opportunità future di profitto e dalla società civile dove il nuovo corso si innesta sulla sensibilità verso uno sviluppo sostenibile. Ma altri frappongono ostacoli: sono le forze della conservazione, attivate dai soggetti industriali che trovano difficoltà a riconvertire l’organizzazione d’impresa in modo radicale e dai soggetti politici che dal vecchio mondo dei combustibili fossili hanno tratto vantaggi finanziari e supporto politico. Su di essi si innesta poi la preoccupazione del mondo del lavoro, reso più fragile dai nuovi modelli organizzativi, dove la frammentazione della filiera produttiva energetica si somma ai rischi di disoccupazione impliciti nella digitalizzazione del settore e alla possibilità di una delocalizzazione difensiva dell’industria che può colpire l’occupazione in un momento di grande incertezza economica e debole crescita. Da queste dinamiche consegue un percorso certamente irreversibile per l’UE, ma non lineare, perché le differenze tra i paesi membri e una visione politica di corto respiro creano barriere di natura nazionalistica alla condivisione delle politiche per dare forza alla trasformazione avviata.
In effetti, la transizione energetica mostra il lato migliore delle opportunità che si aprono per l’Unione europea nel promuovere sinergie se guidate da uno spirito imprenditoriale comune e da valori di solidarietà che facciano delle differenze tra i paesi membri un elemento di forza nel mercato globale. Ma quando si è allargato il perimetro dell’Unione (2004-2006) e la crisi del 2008-2009 ha approfondito il divario economico tra i paesi, l’energia ha evidenziato i limiti politici dell’Unione e la difficoltà dei governi a superare le differenze economiche e istituzionali che li dividono. È risultato evidente che l’UE ha la sua principale debolezza nella difficoltà dovuta al fatto che i governi hanno lasciato avanzare da sola la regolazione, con larghi margini di intervento centralizzato, senza accompagnarla con politiche comuni, che sono il vero elemento propulsore di una progettualità condivisa.
Questa asimmetria tra regolazione centralizzata e politiche nazionali è il tallone d’Achille della politica energetica europea. D’altra parte la condivisione delle politiche è l’aspetto più difficile, rispetto al quale i governi hanno la maggiore resistenza a delegare a Bruxelles scelte e prerogative nazionali. Ma è anche il cuore del respiro politico, il salto necessario al percorso della costruzione europea, nel quale l’energia potrebbe ancora una volta segnare un passo nuovo, dopo l’avvio della Comunità economica nel 1951.
L’energia al centro del progetto di costruzione della Comunità europea
Se si ripercorre la storia del dopoguerra, l’energia, si sa, fu al centro del progetto di costruzione della Comunità economica europea al suo nascere, quando la Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA-1951) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom-1957) proposero l’obiettivo della messa in comune delle risorse tra i paesi membri. Alla visione lungimirante del progetto politico iniziale non seguì tuttavia un’attuazione concreta; il nazionalismo francese prevalse, impersonato da De Gaulle per l’uso dell’energia nucleare nella difesa nazionale e la condivisone delle risorse si arenò presto, con conseguenze che durano ancora oggi.
Successivamente, negli anni Novanta, fu l’Unione europea a guidare il processo internazionale del Protocollo di Kyoto per proteggere l’ambiente dalle emissioni di biossido di carbonio nell’atmosfera (1997), in un percorso di solidarietà nei confronti delle generazioni future costruito su valori sociali radicati e cresciuti nella cultura europeista. La lotta al cambiamento climatico fu il dominio nel quale l’Unione mostrò al contempo la forza dei propri valori e i limiti di un progetto politico che stenta a crescere.
In termini attuativi la dimensione dell’ambiente irruppe sulla scena tra gli obiettivi prioritari dell’Unione solo all’inizio del nuovo millennio, quando apparve chiaro che erano necessari interventi specifici per promuovere la transizione verso un mondo alimentato da fonti rinnovabili in sostituzione dei combustibili fossili – in particolare del carbone e del petrolio – e di efficienza energetica per ridurre l’impatto delle emissioni rilasciate dalla produzione elettrica e dai trasporti. E la trasformazione energetica ne trasse un nuovo impulso.
La svolta istituzionale avvenne quando il Trattato di Lisbona (2007) e il “Terzo pacchetto energia” (2009/72/CE e 2009/73/CE) innovarono profondamente le competenze dell’Unione nel settore. Un nuovo Titolo del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Titolo XXI, TFUE) fu dedicato all’energia e stabilì gli obiettivi (art. 194). In relazione ai contenuti, si integrarono obiettivi e strumenti in materia di energia e di protezione ambientale e furono fissati i principi generali di solidarietà tra paesi membri. Rispetto allo scenario mondiale due obiettivi – decarbonizzare l’economia e garantire la sicurezza di approvvigionamento delle fonti – proiettarono l’Europa rispettivamente nei negoziati internazionali sulla lotta al cambiamento climatico, il primo, e nello scacchiere geopolitico delle fonti di energia il secondo.
La transizine verso le rinnovabili
La transizione verso le rinnovabili si intersecò allora con i processi di integrazione dei mercati e della sicurezza energetica già avviati; questi erano fondati sulla graduale condivisione di regole volte a garantire un flusso regolare di energia tra i paesi membri e le regioni confinanti e a generare comportamenti compatibili tra gli Stati nel caso di interruzione traumatica dei circuiti elettrici (blackout), resi via via più probabili con la diffusione delle nuove fonti rinnovabili difficilmente programmabili; miravano a offrire inoltre strumenti comuni di intervento in caso di crisi di approvvigionamento del gas e di altre fonti primarie. La sicurezza energetica richiedeva l’integrazione dei mercati nazionali in un unico mercato europeo; questa a sua volta imponeva interventi di natura “hardware”, ovvero la costruzione di nuove infrastrutture – reti e gasdotti transnazionali di interesse comune – che collegassero le diverse regioni e il rafforzamento dei collegamenti esistenti; dall’altro rendeva improrogabile l’adesione a regole condivise – interventi “software”, quali i codici di rete transfrontalieri per assicurare comportamenti compatibili tra i paesi membri e consentire soluzioni di tipo solidaristico in caso di crisi locali. Tra gli strumenti di intervento furono attivate in breve tempo regole per lo stoccaggio del gas, fondamentale combustibile di riserva per garantire continuità alle fonti rinnovabili nella transizione, l’obbligo di investire nella conduzione bidirezionale del gas nei gasdotti e di garantire libertà di accesso a terzi nell’uso dei tubi per evitare il loro utilizzo monopolistico e restrittivo da parte dei proprietari. Un esempio per tutti di questa positiva evoluzione furono le due crisi di transito del gas in Ucraina: la prima nell’inverno 2006 colse l’Unione europea ancora impreparata e al freddo; la seconda nel 2009 fu superata con gli strumenti predisposti, tra i quali anche la possibilità di utilizzare i gasdotti di Polonia e Repubblica Ceca in flusso bidirezionale per approvvigionare l’Ucraina durante la crisi. In questa ottica l’integrazione dei mercati fu dunque un primo obiettivo dell’Unione, raggiunto essenzialmente con regole comuni, in parallelo al processo di liberalizzazione avviato alla fine degli anni Novanta, che doveva affrancare il mercato europeo dalla forza e dal contrasto dei monopoli nazionali. L’Unione europea diventò infine un laboratorio in costruzione per attivare progetti comuni di ricerca tramite Horizon 2020 o i piani europei (Strategic Energy Technology (SET) Plan) sulla frontiera tecnologica industriale nel campo delle rinnovabili, dalla costruzione di strumenti per l’accumulo dell’energia elettrica all’introduzione di reti e contatori intelligenti, alla diffusione di dispositivi di ricarica delle batterie per lo sviluppo di trasporti elettrici. Anche se, naturalmente, il piano di ricerca comune non può decollare in senso pieno in assenza di un budget comunitario dedicato.
Il testo proposto è un estratto del volume “Il mondo rinnovabile. Come l’energia pulita può cambiare l’economia, la politica e la società” di Valeria Termini edito da Luiss University Press.
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