Il sovranismo è un errore, soprattutto argomentativo
23 maggio 2019
Volendo semplificare (forse troppo), nella campagna elettorale per le europee si sono fronteggiati due schieramenti – i cosiddetti sovranisti, da un lato, e i cosiddetti europeisti, sostenitori di una cessione di sovranità agli organismi europei, dall’altro. Questi due schieramenti hanno discusso soprattutto di migrazione. Non è sicuro se e quanto questa polarizzazione sarà rispecchiata dal responso dell’elettorato domenica prossima, né è chiaro se ai cittadini europei la questione della migrazione prema quanto ai politici, o quanto i politici credono. Ma potrebbe comunque essere utile analizzare l’argomentazione che i sovranisti (spesso implicitamente) usano per invocare un più stretto controllo delle frontiere nazionali. Se si cerca di trarre il succo logico di vari slogan e pronunciamenti, l’idea dei sovranisti parrebbe essere la seguente. La sovranità nazionale implica un diritto all’autodeterminazione, e questo diritto è in capo al popolo che detiene la sovranità all’interno di un certo territorio – e qui il sovranismo s’interseca o addirittura coincide con il populismo. Dal diritto all’autodeterminazione deriva il diritto di controllare i confini nazionali, ed eventualmente di chiuderli o di selezionare i migranti. Qualsiasi imposizione proveniente da organismi sovranazionali come l’UE che imponga di accogliere finisce per violare il diritto all’autodeterminazione ed è per questo anti-democratico. Direttive europee come il trattato di Dublino, ad esempio, ledono il diritto all’autodeterminazione dei popoli europei, perché impediscono agli Stati di controllare le frontiere secondo il volere dei propri cittadini. Quest’argomentazione si interseca con un’accusa ormai consueta all’Unione Europea e ai suoi regolamenti – l’idea che l’Unione mancherebbe di legittimazione democratica, per la natura molto indiretta della trasmissione della volontà dai cittadini elettori ai decisori europei, per l’impotenza del Parlamento europeo rispetto ad organismi decisionali non elettivi, e così via. Com’è evidente, l’argomentazione sovranista deriva da premesse non controverse – l’idea che popoli democratici abbiano il diritto di regolare la propria vita associata senza intrusioni dall’esterno, esercitando una giurisdizione piena. La critica sovranista all’Europa parrebbe ispirarsi alle migliori argomentazioni della teoria e della pratica democratica. L’idea dell’autodeterminazione dei popoli non è certo una dottrina reazionaria o totalitaria.
Tuttavia, l’argomentazione sovranista a favore del controllo dei confini può essere rovesciata e mutata in un’argomentazione di segno opposto, a favore di un’apertura quasi completa dei confini ai flussi di migranti. O almeno così accade se si usa quest’argomentazione nel mondo reale, dove tutti viviamo.
Le frontiere
Chi ha il diritto di chiudere, o controllare, le frontiere? Questo diritto è in capo ai governi di Stati democratici, è incluso nel più generale diritto all’autodeterminazione dei popoli rappresentati dai governi democratici. Il diritto all’autodeterminazione è una componente centrale dell’idea di sovranità popolare. In un certo senso, il sovranismo è una ripresa dell’idea di sovranità popolare. Non sono, però, gli Stati ad autodeterminarsi, soprattutto se si tratta di Stati democratici: sono piuttosto i popoli – l’insieme dei cittadini elettori accomunati da una qualche caratteristica che li rende uniti in una nazione – ad autodeterminarsi tramite l’operato degli Stati, di cui fa parte anche il controllo delle frontiere. In questo senso, il sovranismo e l’autodeterminazione si saldano col nazionalismo.
Ma perché mai i popoli dovrebbero avere il diritto ad autodeterminarsi? È ovvio che un diritto del genere ce l’abbiano gli individui, perché la libertà è una condizione per vivere bene o un elemento della vita degna di un essere umano, e così via. Si può dire la stessa cosa dei popoli? In letteratura ci sono almeno due modi per sostenere un diritto all’autodeterminazione dei popoli, due teorie che partono entrambe da una concezione di che cos’è un popolo. Secondo le teorie culturaliste, i popoli sono insiemi di persone che condividono una cultura – una storia all’interno di un certo territorio, per esempio, un certo attaccamento tanto al loro passato quanto al loro territorio, un senso di appartenenza e di discendenza comuni, certi valori e stili di vita, certe modalità di esistenza, un patrimonio artistico e letterario, miti e ideologie, immaginari e una lingua. L’autodeterminazione, e il diritto di selezionare chi può far parte del gruppo che costituisce il popolo (per esempio tenendo al di fuori dei confini gli stranieri), servono a mantenere integra questa cultura nazionale, che è ovviamente un valore da preservare, dato che essa entra nelle identità dei singoli. Secondo questo modo di vedere, gli italiani, per esempio, condividono una storia, una cultura, una lingua che hanno il diritto di preservare, impedendo che persone culturalmente diverse entrino e con la loro presenza rendano meno omogenea la nostra vita culturale associata.
L’identità
Secondo le teorie politiche dell’identità dei popoli, questi ultimi sono gruppi uniti da un comune progetto politico di vita associata autonoma – sono gruppi che hanno conquistato l’indipendenza cacciando invasori o occupando un certo territorio e colonizzandolo, oppure staccandosi dalla madrepatria per divergenze di ordine politico, religioso o di altro tipo. Qui la cosa importante non è tanto o soltanto la cultura, ma la storia politica, le intenzioni politiche di un certo popolo. Secondo questo modo di vedere, gli italiani sono un popolo non tanto per la loro cultura o per la loro storia, quanto per la loro adesione alla Costituzione e al progetto politico che essa esprime. L’autodeterminazione e il controllo dei confini servono a garantire la possibilità a popoli così intesi di continuare a vivere la propria vita associata secondo il proprio progetto politico – cioè conformandosi ai valori civili e politici che li hanno portati a unirsi e li accomunano. Tutto questo serve a realizzare la volontà collettiva del popolo, a garantire ai cittadini la libertà di vivere in conformità al proprio ideale di vita associata. In virtù di tutto questo, popoli liberal-democratici, ad esempio, hanno il diritto di rifiutare l’ingresso a individui o gruppi animati da valori politici illiberali o anti-democratici.
Entrambe queste visioni fondano il diritto di controllare le frontiere su idee non controverse – l’esistenza di culture nazionali, di progetti politici nazionali e il valore di preservare tali culture e progetti. Bisogna vedere però se queste argomentazioni portino veramente al diritto di controllare le frontiere nel mondo attuale.
Nel nostro mondo la migrazione è un fatto: ci sono pochissimi luoghi da cui non si parte e in cui non si arriva. Non solo i flussi migratori sono stati una costante della storia umana; essi sono in aumento e lo saranno nel futuro – per l’impatto del cambiamento climatico, il diffondersi di nuove tecnologie, la sovrappopolazione del continente africano. E, anche ammettendo che ci siano luoghi non ancora toccati o che non saranno mai toccati dai flussi, ce ne sono e ce ne saranno molti altri pesantemente coinvolti nei movimenti di interi gruppi di persone.
Ciò vuol dire che in molti dei paesi che rivendicano la propria sovranità e il proprio diritto al controllo delle frontiere ci sono già comunità di migranti – che si tratti di migranti ormai naturalizzati oppure di migranti non riconosciuti dalla legge (o dichiarati ‘clandestini’), ma comunque con una qualche stabilità. Ora come considerare queste comunità rispetto alla nazione ospite, rispetto ai presunti popoli che rivendicano il proprio diritto all’autodeterminazione? Semplificando ancora, si possono dire due cose: o queste comunità sono autonome e indipendenti rispetto alla comunità ospite, e non si integrano, né si potranno mai integrare, oppure esse sono in via di fusione e si possono facilmente integrare o addirittura assimilare alla comunità maggioritaria.
Se è vera la seconda ipotesi, l’argomentazione dell’autodeterminazione perde ogni mordente: se l’assimilazione o l’integrazione sono possibili, o comunque molto probabili, i migranti non minacciano né la cultura né il progetto politico nazionali. Quindi non ci sono ragioni di non accoglierli e l’autodeterminazione non includerà un diritto di chiudere le frontiere.
Mettiamo, invece, che sia vera la seconda ipotesi, cioè che i migranti rimangono e rimarranno sempre un corpo estraneo, una comunità altra. Ma se è così, le comunità migranti si possono descrivere come popoli sia nel senso culturalista sia nel senso politico del termine. Hanno una loro cultura e hanno un loro progetto politico – fondato proprio sulla migrazione di massa, mossa dal desiderio di una vita migliore. D’altra parte, che cosa sono stati e che cosa sono paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, se non comunità di migranti uniti da un progetto comune?
L’autodeterminazione
Ma se i migranti sono un popolo allora avranno diritto all’autodeterminazione. Certo, non si può dire che avranno il diritto di controllare le frontiere – né quelle del loro paese né quelle del paese ospite. Anzi, in un certo senso, li si potrà percepire come veri e propri invasori nel paese ospite. Ma d’altra parte, nessuna delle due visioni di popolo esposte sopra può evitare di partire da un atto primitivo di invasione ingiustificabile: nessun territorio è mai stato non occupato – Enea approdò in un luogo già occupato e da quell’approdo ebbe origine la cultura che ancora forse sopravvive nel nostro paese e i Mille non conquistarono certo un territorio vergine… Quindi, anche ammettendo che l’arrivo di migranti maghrebini o romeni in Italia costituisca un atto ingiustificato, un’invasione (come dicono molti sovranisti), una volta che le comunità maghrebine o romene abbiano raggiunto una certa numerosità e una certa stabilità storica, come negare loro il diritto all’autodeterminazione? E se questo diritto non sfocia nella secessione, che per certi studiosi sarebbe anche possibile, esso includerà sicuramente il diritto di chiamare con sé connazionali uniti dallo stesso progetto migratorio. Per dirla in un altro modo: se si riconosce a un migrante singolo, pur se privo di diritti pieni di cittadinanza, il diritto di richiamare a sé la propria famiglia (cosa riconosciuta in molte legislazioni), perché non si dovrebbe concedere a una comunità migrante il diritto di chiamare a sé gli altri componenti della propria famiglia nazionale? Perché il diritto di autodeterminazione di alcuni dovrebbe prevalere su quello di altri? Solo per un fatto bruto, il fatto che eravamo qui da prima? Ma sicuri che questo sia vero? Sicuri che prima di noi in gran parte del Sud del nostro paese non ci fossero gli antenati di molti maghrebini che adesso ritornano sulle nostre coste?
A tutto questo si potrebbe replicare che i migranti non sono comunità, ma solo individui isolati e sparsi, senza cultura e progetto politico. Ma questo si ritorce contro molti sovranisti: non è chiaro che la cultura degli italiani, dei francesi, o dei britannici sia più coesa di quella dei musulmani o dei romeni, e questo vale ancor di più per l’identità politica. Gente come gli italiani, uniti da poco più di un secolo, e ancora molto diversi, non può certo guardare alle differenze altrui con superiorità: i maghrebini potrebbero essere molto più simili ai siciliani dei trentini. Da questo punto di vista, anche gli italiani, i francesi, i britannici potrebbero essere visti come individui sparsi, casualmente accomunati da una residenza comune e dall’obbedienza a un certo governo.
Da questo ragionamento discende che, in paesi di immigrazione storica e dalla fragilissima identità, come l’Italia – ma anche in molti paesi dell’ex URSS e nel Regno Unito – il sovranismo non porta affatto al diritto di chiudere o controllare le frontiere. I sovranisti, se capissero il succo delle loro argomentazioni, capirebbero che non possono opporsi a una politica migratoria europea di apertura. Il sovranismo è un errore, per molte ragioni. Ma il sovranismo anti-immigrati è anche e soprattutto un errore argomentativo.
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