Non è stata una storia facile. L’evoluzione di ruoli e poteri del Parlamento europeo

23 maggio 2019
Editoriale Europe
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Nella settimana che precede le elezioni europee, Luiss Open ripropone alcune delle più interessanti riflessioni recenti sul presente e sul futuro dell’Unione.

I Poteri del Parlamento europeo

Non è stata, non è una storia facile. Il filo conduttore dell’evoluzione dei poteri e del ruolo del Parlamento europeo è proprio la traccia più sicura per percorrere quella storia. Poteri e ruolo, si è detto. Perché vi è una divaricazione da segnalare subito. I poteri del Parlamento europeo, nel campo della legislazione, del controllo, degli indirizzi politici, si sono andati ampliando, di trattato in trattato. Malgrado questo, il suo “ruolo” – cioè la sua influenza complessiva sugli equilibri del sistema e, in definitiva, sul “governo” europeo – è ancora insufficiente. Si è parlato, e ancora si parla, di “deficit democratico” del sistema. Ma non è vero. Dal 1979 i deputati europei sono eletti direttamente dai cittadini. La legislazione economica comunitaria ha favorito la regionalizzazione degli Stati membri e, con questa, l’articolazione territoriale delle democrazie nazionali, con una fitta rete di assemblee elettive. Non è perciò una formula vuota di senso quella dell’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, che dice: “il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa”. Qual è allora la causa che limita il ruolo “di governo” del Parlamento europeo (almeno nella medesima misura in cui spetta ai parlamenti nazionali)?

 

Il contatto con gli elettori 

Si è sottovalutata l’importanza della dimensione geografica nella rappresentanza politica. Anche se l’elezione del Parlamento europeo si svolge attraverso liste nazionali e con sistemi elettorali prevalentemente nazionali, il “vissuto” parlamentare di Bruxelles e di Strasburgo – con le sue, del resto inevitabili, particolarità procedurali – si sconnette, subito dopo le elezioni (e in qualche nuovo Stato membro persino prima delle elezioni, visto il bassissimo tasso di affluenza alle urne) dal “vissuto” politico e parlamentare di ciascuno Stato. È come se, subito dopo l’accensione, si staccasse il filo di una lampada. Si crea allora il buco nero, che rende quasi invisibili i rappresentati alla cittadinanza che li ha eletti. E che spesso fa sì che i poteri e il ruolo del Parlamento europeo siano sottovalutati dall’opinione pubblica rimasta legata alla politica di casa. Viceversa, gli eurodeputati perdono spesso contatto con i loro elettori e il loro “sentire” sociale, nonostante la “riserva” di tempo che il calendario del Parlamento europeo destina ai rapporti con le rispettive circoscrizioni elettorali. Ma vi è anche, e forse soprattutto, qualcosa di più preoccupante. Quella zona oscura rende discontinuo il controllo democratico parlamentare. Il Parlamento europeo, sfruttando bene i suoi poteri, riesce a “vedere” le responsabilità del complicato “governo comunitario”: ma non può far valere le responsabilità dei governi nazionali, che sono grandissime, nelle attuali condizioni di svolgimento dell’integrazione europea. Viceversa, i parlamenti nazionali, potendo agire sui rispettivi governi, non “vedono” – nel senso che non possono indirizzare né controllare – aspetti decisivi dell’azione delle istituzioni europee di vertice.

 

La necessaria cooperazione interparlamentare

Per superare questo stato di cose, è necessario riconnettere i diversi livelli di rappresentanza politica. All’interno di certi Stati, come l’Italia, il problema si pone, ad esempio, quando si tocca con mano la dannosa disconnessione tra i consigli regionali e il parlamento nazionale. A livello dell’Unione, si deve colmare il vuoto tra la rappresentanza del Parlamento europeo e quella di Camera e Senato. Come? Già si è capito che possono lavorare bene, e con successo, organi “misti” tra delegati del Parlamento europeo e delegati dei parlamenti nazionali. È avvenuto con la “Convenzione Herzog” che in un solo anno ha varato, nel 2000, la Carta dei diritti fondamentali degli europei. E poi anche con la “Convenzione Giscard d’Estaing”, che ha operato tra il 2002 e il 2003, predisponendo un trattato costituzionale, sia pure poi non ratificato da referendum nazionali. D’altra parte, questo “metodo convenzione” è previsto dai Trattati quando si procede alla loro modifica secondo la procedurale normale, cioè a revisioni della “costituzione” dell’Unione di particolare estensione e importanza. Si è intuito inoltre che ciò può agevolmente avvenire con “conferenze” di delegati delle commissioni permanenti, sia del Parlamento europeo sia dei parlamenti nazionali, in materie “sensibili”, come la politica estera e la politica economica (rispettivamente nel 2012 e nel 2013 si sono istituite due “conferenze” specializzate in tali materie). La dimensione collettiva della rappresentanza parlamentare nell’Unione si è poi riproposta con la creazione, nel 2016, di un “gruppo specializzato di controllo parlamentare congiunto” sull’attività della agenzia Europol. Insomma, l’efficacia di una via di “cooperazione interparlamentare”, per giungere a un vero “sistema parlamentare euro-nazionale”, è già indicata nei Trattati. Per percorrerla con convinzione occorre però superare due opposti egoismi. Quello dei parlamentari europei, i quali temono di perdere influenza sulle decisioni politiche che riguardano tutta l’Unione. E quello dei parlamentari nazionali, i quali immaginano di vedere sminuita la loro capacità di indirizzare e controllare le politiche con riflessi europei (cioè: quasi tutte le politiche poste in essere dei rispettivi governi). Da questo punto di vista, si è passati da un rapporto di “derivazione” (con il doppio mandato, nel parlamento nazionale e nel Parlamento europeo) a un rapporto di larvata “separazione-rivalità”. Eppure si avverte, per risolvere questa situazione, una spinta dal basso, proveniente dai cittadini che – votando per l’uno e per l’altro parlamento – hanno diritto a un efficiente “dialogo” interparlamentare per politiche che, alla fine, incidono con uguale intensità sulla loro vita quotidiana. D’altra parte, nello stesso Regolamento interno del Parlamento europeo vi è la previsione di tali legami con i parlamenti degli Stati membri, da svilupparsi sia in “conferenze” (art. 144 RPE), sia in “commissioni parlamentari miste” (art. 214 RPE). Ed è persino stabilita, a questo scopo, una collaborazione con la Commissione europea (Accordo quadro sulle relazioni tra il Parlamento europeo e la Commissione europea del 20 ottobre 2010). Ciò detto, che ci sia, nella costruzione europea, un parlamento direttamente eletto dai cittadini costituisce un momento fondamentale di unificazione. Possiamo anzi parlare di una esigenza indispensabile per concepire l’ordinamento europeo come ordinamento costituzionale: cioè ordinamento in cui, attraverso l’istituzione più democratica, i cittadini partecipano anche di una sovranità, non più statale ma sovrastatale (almeno nelle materie attribuite, per autolimitazione degli Stati membri, all’Unione europea: con competenze esclusive, concorrenti o di coordinamento). Sotto l’altro angolo visuale, solo il legame elettorale diretto con la cittadinanza consente al Parlamento europeo non solo di “rappresentare”, come tribuna, ma di entrare attivamente nel circuito delle istituzioni governanti dell’Unione.

Il testo proposto è un estratto del volume “Il Parlamento europeo. Una introduzione” di Nicola Lupo e Andrea Manzella edito da Luiss University Press.

Gli autori

Nicola Lupo è professore ordinario di Diritto delle assemblee elettive alla Luiss


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è Presidente del Centro di studi sul Parlamento-CESP della Luiss. È stato parlamentare europeo  e componente della Convenzione che ha elaborato la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.


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