Politica migratoria: la solidarietà non basta
25 maggio 2019
Nella settimana che precede le elezioni europee, Luiss Open ripropone alcune delle più interessanti riflessioni recenti sul presente e sul futuro dell’Unione.
L’Europa avrebbe dovuto “fare di più per aiutare l’Italia ad affrontare gli enormi flussi migratori”, ha riconosciuto la cancelliera tedesca Merkel. L’Italia “è stata lasciata da sola ad affrontare la sfida delle migrazioni”, ha ribadito il presidente francese Macron in un incontro con il nostro presidente del Consiglio Conte. Non c’è stato un governo italiano degli ultimi anni che non abbia denunciato l’ipocrisia europea, ricca di nobili parole (nei nostri confronti) ma povera di concrete azioni (per sostenerci).
Tutto vero. Ma anche tutto (troppo) semplice. Per affrontare una crisi migratoria di queste proporzioni, la solidarietà non basta. Ci vuole un nuovo approccio alla politica migratoria. Quale? Rispondo cominciando dall’inizio. Primo. La politica migratoria è stata tradizionalmente una prerogativa centrale dello Stato nazionale, in quanto ha influenzato la capacità di quest’ultimo di proteggere la propria sovranità territoriale. Lo stesso discorso vale per la politica dell’asilo, il cui controllo consente a uno Stato di stabilire chi può vivere all’interno dei suoi confini. Con la fine della Guerra fredda, e lo scongelamento delle frontiere che si era determinato, quelle prerogative furono portate a Bruxelles e organizzate all’interno di uno specifico pilastro di collaborazione intergovernativa. Con il Trattato di Maastricht del 1992, gli Stati membri dell’Unione europea decisero di coordinarsi sul piano di quelle politiche, mantenendo però il controllo delle proprie sovranità territoriali. Tale approccio era stato inaugurato già dagli Accordi di Schengen del 1985 (la cui Convenzione, di natura internazionale, verrà firmata il 15 giugno 1990, divenendo quindi legge comunitaria nel 1999) che avviarono l’eliminazione delle frontiere interne tra i Paesi aderenti a quegli Accordi. Eliminazione a cui non corrispose appunto la creazione di una comune frontiera esterna. Lo stesso approccio guidò la Convenzione di Dublino (firmata anch’essa il 15 giugno 1990, divenuta quindi legge comunitaria nel 2003) in base alla quale si decise che spettasse allo Stato di primo arrivo stabilire se accettare la domanda d’asilo politico di un migrante.
In poche parole, gli Stati europei hanno dovuto riconoscere che la questione migratoria non può essere risolta da ognuno di loro singolarmente. Tuttavia, non hanno voluto rinunciare al principio della loro sovranità territoriale. Poteva funzionare? Secondo. Quando esplose la crisi migratoria alla metà di questo decennio, il coordinamento volontario delle sovranità territoriali non ha più funzionato. Vennero quindi avviati tentativi per ridimensionare quelle sovranità, così da promuovere risposte collettive. Nel 2015 la Commissione propose uno schema per la ricollocazione dei rifugiati politici tra i vari Stati europei, nel 2016 la piccola agenzia per il coordinamento delle frontiere (Frontex) fu trasformata in una Guardia europea di frontiera e costiera. Più l’immigrazione aumentava, più la Commissione e il Consiglio dei ministri hanno dovuto trovare soluzioni collettive, più tali soluzioni furono però vissute come intrusioni nelle sovranità nazionali. Così, ovunque si è registrata la crescita impetuosa di partiti che denunciavano “l’impotenza europea nei confronti dell’immigrazione”, presentando quest’ultima come una minaccia esistenziale alle società nazionali. Una crescita così impetuosa che quei partiti sono andati al potere (prima) nei Paesi dell’Europa orientale e (poi) anche dell’Europa centro-occidentale (tra cui in Italia con le elezioni del marzo scorso). Per quei partiti occorre chiudere le frontiere nazionali così da creare una “fortezza Europa” distaccata (militarmente, se necessario) dalle aree regionali limitrofe (Africa in particolare). È possibile che un problema di questa magnitudine possa essere affrontato Paese per Paese? E, soprattutto, basta davvero chiudere la porta per fermare l’acqua?
Terzo. Se è impensabile chiudere le frontiere in un Paese come il nostro, tuttavia sarebbe opportuno domandarsi se ha senso continuare a fare affidamento sulla solidarietà degli altri per gestire i flussi migratori che arrivano sulle nostre coste. Certamente è ragionevole chiedere che la Commissione assuma compiti di redistribuzione dei costi “migratori” (dai Paesi più esposti a quelli meno esposti), oppure che i Paesi meno colpiti dallo shock migratorio si impegnino finanziariamente e organizzativamente per costruire centri di raccolta dei migranti là dove essi partono per andare in Italia. Così è ragionevole chiedere di rivedere gli Accordi di Dublino (magari evitando di allearsi con i Paesi di Visegrád che quegli Accordi vogliono semplicemente abolirli). Per quanto tali misure siano necessarie, tuttavia esse non vanno al cuore del problema. Che è costituito (appunto) dalla persistenza della sovranità territoriale degli Stati. Ecco perché il grido di dolore sull’Europa “che ci dovrebbe aiutare di più” andrebbe accompagnato da una strategia rigorosa per ridefinire quelle sovranità territoriali. Una strategia finalizzata a dare vita a un governo comune della politica migratoria che sia indipendente e separato dai singoli Stati. Occorre trasformare la Guardia europea in un’agenzia che possa agire autonomamente dalle volontà dei singoli governi (mentre ora interviene se richiesta da questi ultimi), così garantendo lo spazio europeo della libera circolazione. Occorre assegnare al governo comune della politica migratoria un bilancio indipendente, derivato da una capacità fiscale autonoma e gestito da un commissario responsabile verso il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri. Si tratta infine di sostituire gli Accordi di Dublino con una politica europea dell’asilo politico, decisa dal legislativo bicamerale a maggioranza e gestita da autorità politiche sovranazionali. In conclusione, occorre superare la logica intergovernativa della politica migratoria, così come si è sviluppata da Maastricht in poi. Va tolta l’acqua ai pesci sovranisti che criticano l’Europa per non fare abbastanza e, contemporaneamente, le impediscono di acquisire la necessaria sovranità per fare qualcosa in modo efficace. Ecco perché, oltre a chiedere solidarietà, dovremmo avanzare una strategia di riforma strutturale della politica migratoria.
Il testo è originariamente apparso sul Sole 24 Ore il 10 giugno 2018, contenuto inoltre nel volume “Manuale di autodifesa europeista” di Sergio Fabbrini edito dalla Luiss University Press.
Newsletter
Articoli correlati
L’Europa ha bisogno di nuove regole, non solo fiscali
12 giugno 2021
A settembre entrerà nel vivo il dibattito europeo sulla riforma delle regole economiche. Non è la prima riforma delle regole e l’esperienza non è confortante. Un modo di descrivere lo spirito delle riforme passate è “una mentalità da specchietto retrovisore, avvolta dentro una sindrome della nazione di piccole dimensioni”.
La conferenza sul futuro dell’Europa: cosa farne?
2 giugno 2021
La Conferenza sul futuro dell’Europa è partita. Il suo scopo è promuovere il dibattito pubblico sul futuro dell’Unione europea (Ue). Un’aspettativa legittima, se non fosse che non siamo nell’agorà ateniese in cui poche migliaia di persone si riuniscono per discutere sulla polis.
Tasse e potere: le sfide da affrontare
26 maggio 2021
Nei giorni scorsi sono stati resi pubblici due progetti di riforma fiscale, una dell’Amministrazione Biden e l’altra della Commissione europea. Entrambe sollevano i dilemmi propri della sovranità politica di un’epoca di interdipendenze tra stati. Vediamo di seguito un’analisi del professor Fabbrini.
L’Unione europea che guarda al futuro
12 maggio 2021
A 71 anni dalla Dichiarazione Schuman, l’Europa è un continente pacificato, con un mercato tra i più vitali al mondo e con democrazie solide (anche se non dappertutto). Hanno buone ragioni i parlamentari europei che oggi si riuniscono a Strasburgo per inaugurare la Conferenza sul futuro dell’Europa. Hanno cattive ragioni, invece, coloro che denigrano i risultati che l’Europa ha raggiunto.