Viaggio alle origini della guerra culturale fra Russia ed Europa

28 maggio 2019
Editoriale Europe
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“Osservata dall’Europa, la Russia sembra asiatica. Osservata dall’Asia, sembra europea”. In queste poche parole di Aleksandr Herzen c’è quello che è stato uno dei grandi enigmi della storia universale: la specifica identità culturale della Russia, nella quale sono polemicamente convissuti due principi di cui uno era la negazione dell’altro: “l’orientale e l’occidentale” (Nikolaj Berdjaev), ossia il collettivismo e l’individualismo. Con il risultato che la Russia non è stata una periferia della civiltà occidentale, bensì una civiltà sui generis. Tanto sui generis da indurre Pëtr Čaadaev a giungere a questa conclusione: “Non abbiamo camminato assieme agli altri popoli; non apparteniamo a nessuna delle grandi famiglie del genere umano; non siano né Occidente né Oriente; e non abbiamo le tradizioni né dell’uno né dell’altro”.

La prima cosa che colpisce quando si fissa lo sguardo sull’Impero moscovita è “la simbiosi quasi totale tra Stato e Chiesa. (…) Lo zar e i suoi sudditi si definiscono attraverso la loro appartenenza alla Chiesa ortodossa, i cui precetti adempiono, in un senso molto moderno, all’ufficio di ideologia. Non sorprende che ogni contestazione, ogni conflitto concernente il rito e i precetti della Chiesa avessero ripercussioni profonde sulla vita pubblica e culturale del Paese e minacciassero direttamente il sentimento di identità nazionale e l’unità spirituale della società” (Marc Raeff, “La Russia degli zar”).

Chiaramente, ci troviamo di fronte a una variante del sistema bizantino, con il quale le élite russe erano entrate in contatto a partire dalla conversione del granduca Vladimir di Kiev. Esse non solo cercarono di plasmare le istituzioni del loro Paese modellandole su quelle vigenti a Costantinopoli, ma, “sotto l’influsso della Chiesa greco-ortodossa, presero a poco a poco l’abitudine di considerare fondamentalmente eretico tutto quello che veniva dall’Europa occidentale, e di respingerlo come tale” (Valentin Gitermann, “Storia della Russia”). La conseguenza fu che la Russia, per secoli e secoli, non partecipò allo sviluppo politico, economico e culturale dell’Europa. Contemporaneamente, però, a motivo della “potente immigrazione delle idee occidentali” (Max Weber), essa subì una permanente “aggressione culturale” (Arnold J. Toynbee). Così la storia della Russia divenne “una gigantesca acculturazione” (Fernand Braudel) durante la quale l’intellighenzia si divise in “erodiani” e “zeloti”: partigiani della piena occidentalizzazione i primi, strenui difensori della sacra immutabile tradizione i secondi. Il che trasformò la Russia in “una parte speciale dell’Europa, insieme affine ed estranea ad essa per il suo destino storico” (Vittorio Strada).

Agli inizi del XX secolo un ipotetico osservatore sarebbe giunto alla conclusione che il partito erodiano era sul punto di conseguire una storica vittoria sul partito zelota. Infatti, come ha puntualmente documentato Vittorio Strada, “il processo rivoluzionario avviato aveva raggiunto due risultati di enorme portata per la Russia: una consisteva nei germogli di un regime costituzionale sotto forma di rappresentanza popolare e di libertà di stampa, l’altra nei germogli di una proprietà terriera popolare creati dalla riforma di Stolypin”. Sennonché, il processo di acculturazione fu brutalmente interrotto dalla Rivoluzione bolscevica. La quale non fu affatto una modernizzazione difensiva, come tanti studiosi hanno affermato. Fu una vittoriosa reazione contro il processo di occidentalizzazione della Russia.

 

I bolscevichi come novelli “zeloti”

Il carattere zelota della rivoluzione bolscevica fu prontamente percepito dall’ex diplomatico sovietico S. Dmitrievskij, il quale sottolineò che la grande meta perseguita da Stalin – impedire la “vittoria dell’Occidente e della sua concezione fondamentale dell’individualismo e del liberalismo nella vita politica” – poteva essere raggiunta solo “sulla base del capitalismo monopolistico di Stato che si estendesse alla totalità della vita economica del Paese, senza eccezioni”. E in questo Stalin fu il fedele continuatore dell’opera intrapresa da Lenin. Infatti, a giudizio del carismatico leader del bolscevismo mondiale, era imperativo combattere con tutti i mezzi quella “grave malattia” – il riformismo – che si era diffusa con “il bacillo della politica operaia liberale” il cui obiettivo era la “europeizzazione della Russia”.

Aveva, dunque, colto nel segno Anton Pannekock quando indicò nell’Ottobre bolscevico “l’inizio della ribellione asiatica contro il capitalismo dell’Europa occidentale”; così come aveva colto nel segno Karl Wittfogel quando definì una “restaurazione asiatica” il sistema di dominio ideato da Lenin e perfezionato da Stalin.

E’ vero che l’industrializzazione a marce forzate della Russia fu l’obiettivo che il Partito bolscevico perseguì con la più spietata determinazione. Ma ciò non autorizza a giungere alla conclusione che il sistema sovietico sia stato una Modernità alternativa, come ha affermato Jacques Bidet e come ha ribadito Silvio Pons. E questo perché la Modernità non è solo l’apparato industriale e la tecnologia scientificamente orientata. La Modernità è anche – anzi, soprattutto – un assetto istituzionale nel quale sia garantita la fruizione dei diritti e della libertà fondamentali dei cittadini, l’autonomia della società civile, il pluralismo politico-culturale, l’uso pubblico della ragione in tutti i campi, lo Stato laico e la nomocrazia: tutte cose che i bolscevichi – determinati a creare una sorta di “negativa fotografica” della civiltà liberale – cancellarono nel modo più radicale.

Il fatto è che i bolscevichi si comportavano “verso l’Occidente quasi nello stesso modo con cui si comportavano gli slavofili” (Nikolaj Berdjaev); tant’è che somministrarono al popolo russo quello che Dimitrievskij descrisse come “un tossico terribile: l’odio e la sfiducia per tutto ciò che sapeva di Occidente”. Il risultato fu una sorta di remake su vasta scala dello Stato spartano: uno Stato che non ammetteva nulla di privato e che, precisamente per questo, era radicalmente incompatibile con la “libertà dei moderni”; tant’è che Nikolaj Bucharin avrebbe orgogliosamente dichiarato che l’obiettivo primario della rivoluzione comunista era “la distruzione dell’individualismo”. In effetti, la Rivoluzione d’Ottobre ha rappresentato il più coerente e spietato tentativo di cancellare Cosmos (la spontaneità sociale) al fine di creare un sistema di dominio regolato esclusivamente dalla logica totalitaria di Taxis (l’ordine pianificato) di modo che il Partito potesse “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico” (Lenin). E potesse altresì “lottare contro la linea di adattamento all’Europa” (Lenin). Essa, pertanto, fu una violenta reazione zelota contro la Modernità; dunque un fenomeno storico profondamente reazionario.

La cosa non sfuggì al grande Toynbee, il quale, con la consueta lucidità, vide che dietro la maschera del “socialismo scientifico” indossata da Lenin si nascondeva “il Profeta della Santa Russia, che incarnava la reazione dell’anima russa contro la civiltà occidentale”. E vide anche che la versione leninista del marxismo era “un’arma anti occidentale più efficace di qualsiasi arma materiale”. In effetti, fu proprio grazie alla escatologia marxiana – nella quale il capitalismo veniva stigmatizzato come “un Moloch che pretendeva il mondo intero come vittima a lui spettante” – che i bolscevichi riuscirono, elevando una compatta “cortina di ferro”, a bloccare la penetrazione delle idee e dei valori della civiltà occidentale. E riuscirono anche a convertire alla loro impresa rivoluzionaria – l’annientamento della libertà borghese bollata come “un privilegio corrotto e corruttore” che generava “uomini spiritualmente rovinati dal capitalismo” – una parte non piccola del “proletariato interno” della civiltà occidentale, nonché quegli intellettuali descritti da Hannah Arendt come “nichilisti attivi” mossi dall’ardente desiderio di “assistere alla rovina di una società completamente permeata dalla mentalità e dai principi della borghesia”. Furono questi ultimi che – determinati a “mettere davanti agli occhi il nulla dell’uomo moderno” – crearono una controcultura centrata sul culto idolatrico di quello che Filippo Turati, nel suo memorabile discorso di Livorno, chiamò “il feticcio di Mosca” e sulla demonizzazione del capitalismo bollato come la fonte unica di tutti i mali del mondo.

 

La chiamata alle armi contro il liberalismo

Iniziò, così, una nuova fase della “guerra culturale” fra la Russia e l’Europa, durante il quale il bolscevismo lanciò una chiamata rivoluzionaria alle armi contro la civiltà liberale con l’obiettivo di saldare in un’unica armata planetaria il “proletariato interno” e il “proletariato esterno”. Il che produsse un rovesciamento delle parti: ora era la Russia che aggrediva l’Occidente; e lo faceva grazie alla sostituzione del “Messianesimo della Terza Roma” con “il Messianesimo della Terza Internazionale” animato dal progetto di realizzare “il Regno di Dio sulla Terra, ma senza Dio e contro Dio” (Berdjaev). Di qui il fatto che il Partito bolscevico concepiva la Rivoluzione come un grandioso processo cosmico-storico la cui meta finale era la creazione di una nuova civiltà; e giustificava la sua pretesa di essere la mente direttrice del movimento operaio mondiale proclamandosi unico ed esclusivo interprete di una dottrina che aveva scientificamente dimostrato che il comunismo era “l’ultima e definitiva forma di organizzazione dell’umana famiglia” (Karl Marx e Friedrich Engels).

Conseguentemente, i bolscevichi vedevano nel marxismo “l’espressione cosciente di un processo storico inconscio” che indicava all’umanità la strada “fissata in precedenza”, sicché i passi del Partito comunista “erano i passi della Storia” (Lev Trockij). Accadeva così che l’Unione Sovietica, “incarnando il progresso, aveva sempre ragione rispetto agli Stati capitalistici che incarnavano la reazione: qualunque cosa facesse, essa obbediva alle leggi della Storia” (Mihail Heller e Aleksandr Nekric). E la Storia aveva decretato che “la luce proveniva dall’Oriente” poiché “l’Occidente, con i suoi cannibali imperialisti, si era trasformato in un focolaio di ignoranza e schiavitù” che era imperativo “distruggere” (Stalin). Donde l’idea della rivoluzione proletaria mondiale come scontro planetario fra “l’Occidente imperialista e controrivoluzionario e l’Oriente rivoluzionario e nazionalista” (Lenin). Con il risultato che la Guerra Fredda non fu solo il duello esistenziale tra due potenze entrambe desiderose di conquistare l’egemonia planetaria; fu anche lo scontro fra due modelli di organizzazione sociale inconciliabili: quello americano – animato dall’aspirazione di “essere in grande ciò che Atene era stata in piccolo” (Thomas Paine) – e quello sovietico, che era la negazione secca dei valori “ateniesi”, primo fra tutti la libertà individuale.

 

L'autore

Luciano Pellicani è sociologo, giornalista e docente emerito alla LUISS


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