Il resistibile declino italiano, tra debolezze secolari e quattro grandi traumi
7 giugno 2019
Nel saggio La crescita economica italiana, 1861-2011. che sintetizza i risultati di un ampio programma di ricerca sulla storia economica dell’Italia unita, condotto sotto l’egida della Banca d’Italia, Toniolo guarda al declino del Paese da una prospettiva di lunghissimo periodo. Egli prima osserva, rifacendosi a Gerschenkron (1962, 72-89), che tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Novanta del secolo scorso “la storia dello sviluppo economico dell’Italia è quella tipica di uno dei paesi ‘periferici’ dell’Europa che converge verso il ‘nucleo centrale’ delle nazioni di prima industrializzazione”, facendo leva sulla propria arretratezza e sul potenziale di catch-up che essa offriva. La spinta che questo modello di crescita impresse al Paese lo vide per circa un secolo crescere più rapidamente delle economie che l’avevano preceduto sulla via dell’industrializzazione.
Questo processo di convergenza fu sostanzialmente completato attorno alla metà anni Novanta del Novecento, quando la produttività dell’economia italiana – in termini di prodotto per ora lavorata – eguagliò quella dei più avanzati paesi europei (su un livello pari al 90% di quello espresso dall’economia statunitense). Da allora, come abbiamo visto, l’Italia iniziò lentamente a divergere dalla frontiera mondiale della produttività. La ragione, secondo Toniolo, è che il Paese “sembra avere in qualche modo perso la sua ‘capacità sociale di crescita’”.
Più precisamente, egli invoca due ragioni principali per spiegare perché a partire dagli anni Novanta le secolari debolezze dell’economia italiana siano divenute vincoli sempre più stringenti. La prima è che quattro shock esogeni, ossia quattro forti discontinuità derivanti da cause slegate dalle dinamiche interne dell’economia italiana, mutarono radicalmente il contesto nel quale essa è inserita: la rivoluzione delle ICT, l’intensificarsi della globalizzazione, l’ascesa della Cina e dell’India, e l’adozione dell’euro.17 La seconda ragione è invece endogena, ed è riassumibile nella constatazione che il modello di crescita che aveva sostenuto la convergenza dell’Italia non era più adatto a un’economia che nel frattempo era giunta sulla soglia della frontiera della produttività. Toniolo scrive che:
proprio la riuscita convergenza di lungo periodo ha alterato le condizioni che ne rendono possibile la prosecuzione. Una volta che un Paese colma (o quasi) il divario di produttività con quelli più avanzati [tramite il cambiamento strutturale e l’adozione di superiori tecnologie straniere] diventano cruciali altri fattori di crescita: istituzioni (in senso lato) adeguate, ricerca, capitale umano, infrastrutture fisiche e intangibili.
Il mancato adeguamento dell’economia italiana alla sua stessa evoluzione e alla trasformazione del contesto internazionale spiegherebbe dunque il declino di questi ultimi venticinque anni, durante i quali quei quattro shock, che con una diversa struttura dell’economia avrebbero potuto essere opportunità di crescita, la ostacolarono invece. Questa interpretazione si regge sugli studi empirici raccolti nel medesimo volume. Tra questi è utile richiamare l’analisi di Barbiellini Amidei et al., che affrontano il tema cruciale dell’innovazione tecnologica. Essi rilevano un parallelo declino sia nella capacità del Paese di assorbire, adattare e diffondere tecnologie avanzate provenienti dall’estero, sia nella sua capacità di generare internamente il progresso tecnologico: un declino che pare essere “direttamente associato alla deludente crescita della produttività” dei passati venticinque anni.
Il quadro è variegato, ma spiccano due discontinuità rispetto a tendenze di lungo periodo. La prima riguarda il livello e la destinazione degli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S, in questo studio). Se è vero che in Italia essi furono comparativamente bassi già a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, dopo gli anni Novanta “il divario ancora considerevole tra l’Italia e gli altri principali paesi industrializzati è andato allargandosi. Un divario che è anche qualitativo, perché se “gli anni Sessanta e Settanta furono caratterizzati dalla crescita della R&S in settori alla frontiera tecnologica”, inclusa l’elettronica e l’energia nucleare, “a partire dagli anni Ottanta si è avuto un arretramento relativo dell’attività di ricerca nelle industrie high-tech e un’intensificazione nelle industrie a tecnologia intermedia (industria automobilistica, meccanica, e delle apparecchiature elettriche […])”.
La seconda discontinuità, altrettanto preoccupante, è che col nuovo secolo ha preso a flettere anche l’importazione di brevetti e altre forme di tecnologia non incorporata in beni strumentali, senza che vi sia alcun segno che la capacità di generare endogenamente il progresso tecnologico sia parallelamente aumentata. Ciò è grave perché gli acquisti in licenza di tecnologie straniere crebbero “assai significativamente” durante il miracolo economico, in rapporto al PIL, rimasero elevati ben oltre la fine dell’Età dell’Oro, e per tutto questo periodo diedero un contributo “cruciale” all’attività innovativa italiana.
Essi sono recentemente scesi al livello degli anni Sessanta (0,20% del PIL), molto sotto il picco raggiunto nel 1978 (0,35% del PIL), quando l’Italia era, al pari della Germania, il primo importatore di tecnologia non incorporata tra gli stati membri dell’OCSE. Nelle conclusioni della versione inglese del loro saggio questi autori scrivono di un decay – letteralmente “decomposizione”, “rovina”, e, in senso figurato, “decadimento”, “deterioramento”, “declino” – del sistema di innovazione italiano, specialmente nei settori della rivoluzione di gitale. In un mondo profondamente mutato, l’attuale sistema di innovazione italiano sembra un’ombra di quello che il Paese si diede oltre mezzo secolo fa.
Quanto alle cause prossime della perdita della “capacità sociale di crescita”, Toniolo sottolinea il calo, a partire dagli ultimi anni Ottanta, delle dimensioni medie e della produttività delle imprese, l’indebolimento delle grandi imprese, la cui importanza resta sistemica, e il peso del debito pubblico, che spinse i tassi d’interesse e la pressione fiscale verso l’alto e contribuì a provocare frequenti tagli nelle spese per investimenti e per ricerca e sviluppo. Egli concorda con Di Nino et al. (2013) nel giudicare la sopravvalutazione del tasso reale di cambio più un sintomo che una causa della “malattia” italiana. E infine si volge alle debolezze secolari del Paese. Per illustrare l’argomento enunciato all’inizio di questo paragrafo, Toniolo usa l’esempio del capitale umano:
Per semplificare un tema complesso: per importare e adattare con successo tecnologia straniera, l’Italia aveva bisogno di un buon gruppo di ingegneri ben addestrati e di una forza lavoro con un’istruzione di base e competenze acquisite nell’agricoltura, nell’edilizia o nell’artigianato. L’Italia disponeva di entrambi. Vicino alla frontiera tecnologica, in un mondo globalizzato, la scarsità di capitale umano è diventata una barriera alla diffusione della ICT, all’innovazione endogena e all’adozione di processi di produzione di avanguardia.
È per questo che “[i]n buona misura, l’Italia ha perso l’occasione di sfruttare la rivoluzione informatica, la “tecnologia a scopo generale” di questa fase storica, per accrescere la propria produttività”. L’altra ragione che Toniolo cita – una regolamentazione dell’economia inadeguata ed eccessivamente pesante – ci conduce alla seconda delle due domande formulate nel paragrafo precedente.

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