Il whistleblowing e la sua incidenza nella società connessa

11 giugno 2019
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“Il governo si è dato dei poteri cui non ha diritto. Non c’è controllo pubblico e il risultato è che persone come me hanno la possibilità di andare oltre quello che è concesso loro” ha detto Edward Snowden in occasione della sua prima intervista con il Guardian, nel momento in cui decise di uscire allo scoperto come il whistleblower fonte dello scandalo sulla sorveglianza di massa della National Security Agency (NSA) statunitense, scoppiato pochi giorni prima (Greenwald et al., 2013). Un concetto, in particolare, è molto importante al fine di comprendere fino in fondo il ruolo che il whistleblowing gioca nell’architettura della democrazia e del giornalismo: “supervisione pubblica” (“public oversight” nell’originale inglese). In quanto persone interessate a rivelare potenziali illeciti in pubblico, i whistleblower si sono spesso intrecciati con il giornalismo e i media come canali potenziali per le loro rivelazioni. La relazione tra un whistleblower che decide di diventare una fonte e il giornalista con cui si interfaccia può essere una classica winwin situation per entrambe le parti coinvolte: da un lato il whistleblower può portare documenti inediti o piste investigative nuove, mentre il giornalista può fornire esposizione mediatica, l’ingresso nella sfera pubblica, una voce e la possibilità di favorire un cambiamento.

Non è una sorpresa, quindi, che la storia del giornalismo includa diversi esempi di whistleblowing dove il giornalismo ha giocato un ruolo fondamentale. I whistleblower sono quindi da considerarsi tra le fonti più potenti a disposizione dei giornalisti, grazie all’ampio accesso che possono fornire a informazioni altrimenti inaccessibili. In particolare, in contesti dove la censura è forte o la possibilità di accedere a dati pubblici grazie a una legislazione per l’accesso (Freedom of Information Act o FOIA) è limitata, i whistleblower possono diventare l’unica chance per i giornalisti che vogliono servire l’interesse pubblico. Gli anni a partire dal 2009, in particolare, sono stati caratterizzati da una rilevanza crescente di questa pratica nello sviluppo delle tattiche giornalistiche e della cultura del giornalismo stesso. Le tecnologie digitali e le strutture a network dell’ambiente mediatico contemporaneo, poi, hanno avuto un impatto profondo su come il whistleblowing viene effettuato e su come esso venga incluso nel giornalismo e le sue routine. Questo è visibile, e i casi in esame in questo volume lo confermano, in almeno tre modi. In prima istanza, si è vista una crescita esponenziale nel numero di casi globali e internazionali di whistleblowing. WikiLeaks ha certamente giocato un ruolo di primo piano con le sue maggiori pubblicazioni nel 2010, anticipando per altro il caso Snowden di tre anni e altri esempi come la serie sulle economie offshore “Offshore Leaks”, “Swiss Leaks”, “LuxLeaks”, i “Panama Papers” e i “Paradise Papers”, tutte pubblicate con l’apporto dell’International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ). Secondariamente, il numero di documenti e di dati coinvolti in questi leak è diventato progressivamente più grande, nel corso di sei anni. Il corpus di documenti noto come “Cablegate”, pubblicato da WikiLeaks nel 2010, consisteva di 1,7 gigabyte di materiali forniti dalla fonte, mentre i “Panama Papers” raggiungevano addirittura i 2,6 terabyte.

Queste dimensioni vastissime rappresentano una novità assoluta per l’informazione e, inevitabilmente, un elemento che ha un impatto su come la professione giornalistica debba essere organizzata, condotta e su come le informazioni debbano essere verificate, analizzate e, in ultima istanza, pubblicate (Di Salvo, 2017b). In terzo luogo, per quanto riguarda le pratiche giornalistiche coinvolte nei casi di whistleblowing nell’era digitale, gli strumenti di crittografia e sicurezza informatica per proteggere i giornalisti e le loro fonti, giocano a loro volta un ruolo molto importante e sono state fondamentali per i casi qui in esame.
Nella loro definizione, divenuta un classico nella ricerca accademica nel settore, Marcia P. Miceli e Janet P. Near definiscono il whistleblowing come: “il disvelamento da parte di un membro di un’organizzazione (attuale o passato) di pratiche illegali, immorali o illegittime perpetuate sotto il controllo dei loro datori di lavoro, verso persone o organizzazioni che potrebbero determinare un cambiamento” (Miceli e Near, 1992, pp. 15-21). Nella loro definizione sono tre gli elementi che emergono chiaramente nell’indicare l’idea centrale dietro il concetto stesso di whistleblowing: “disvelamento”, la natura “illegale, immorale o illegittima” degli atti che vengono rivelati e l’idea di provocare una “azione” come risposta a quello che viene esposto al di fuori dell’organizzazione in oggetto.

A una prima lettura, di questa definizione, il whistleblowing potrebbe apparire come una pratica rara o estrema in cui possono essere coinvolti solo casi di grande portata. In realtà, esso è uno dei meccanismi che più di frequente garantisce delle forme di trasparenza e accountability ad aziende e organi pubblici nei confronti dei loro pubblici e su livelli di potere molto differenti. La rarità di casi realmente globali, come quelli rappresentati da WikiLeaks o Snowden non deve quindi offuscare l’importanza del whistleblowing anche sul piano nazionale, regionale o cittadino: ipoteticamente, ogni organizzazione potrebbe trovarsi al centro di un caso di whistleblowing. In Italia, ad esempio, la ONG Transparency International ha lanciato un servizio online per raccogliere segnalazioni da parte di whistleblower interessati a denunciare casi di corruzione o simili. Nel 2015, Transparency ha redatto un report per elencare le segnalazioni ricevute in Italia: i whistleblower si sono fatti avanti da diversi settori, come università, piccoli comuni, aziende ospedaliere e uffici locali dell’Istituto nazionale previdenza sociale (INPS). Nel 2019, invece, la medesima organizzazione ha fatto sapere di aver ricevuto 618 segnalazioni dall’apertura del suo canale di comunicazione per i whistleblower italiani. A seconda delle decisioni dei whistleblower in termini di destinatari delle loro segnalazioni, è possibile distinguere tra whistleblowing “interno” ed “esterno” (Dworkin e Baucus, 1998). Il primo avviene all’interno dei confini dell’organizzazione di cui anche il whistleblower è parte, mentre il secondo porta le segnalazioni al di fuori e implica il coinvolgimento del pubblico.

Ci sono diversi possibili destinatari esterni: forze dell’ordine, autorità anti-corruzione, ONG che si occupano di trasparenza e, ovviamente, i media e i giornalisti. Quest’ultimo scenario, anche per via dei maggiori rischi connessi, è il più raro ma potenzialmente il più efficace. Alcune ricerche confermano che la stragrande maggioranza dei casi di whistleblowing avviene all’interno delle organizzazioni interessate, mentre “solo i più tenaci perseverano oltre questo punto” qualora i tentativi interni non portassero a risultati (Vandekerckhove, James, West, 2013). Questo è visibile anche osservando i casi in esame in questo volume: Chelsea Manning, prima di rivolgersi a WikiLeaks, cercò di contattare i suoi superiori in Iraq per segnalare l’incarcerazione da lei ritenuta illegittima di quindici persone autrici di contenuti giudicati “anti-iracheni”, senza ottenere risposte (Gostzola, 2013; Madar, 2013). Come è anche noto, prima di rivolgersi a WikiLeaks, Manning non ottenne risposte anche da Washington Post, New York Times e Politico (Pilkington, 2013). Anche Edward Snowden ha dichiarato in un’intervista alla NBC di aver tentato prima la strada “interna”, cercando l’attenzione di superiori e colleghi all’interno della NSA (Peterson, 2014). Uscire allo scoperto e cercare il coinvolgimento dell’attenzione dell’opinione pubblica sono elementi fondativi del whistleblowing “esterno” – e in particolare di quello che coinvolge i media – e hanno un impatto importante sull’efficienza delle segnalazioni. Se da un lato il rivolgersi all’esterno garantisce più visibilità e possibilità di “scandalizzazione”, allo stesso tempo può anche significare più pericoli e potenziali controversie, specialmente in connessione alle debolezze correnti delle legislazioni per la difesa dei whistleblower, un problema che tocca numerosi Paesi (Wolfe et al., 2014).

Leaks

Whistleblowing e hacking nell'età senza segreti

Philip Di Salvo
Luiss University Press

Scheda

L'autore

Philip Di Salvo è ricercatore e docente presso l’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano. Come giornalista, scrive dell’impatto sociale della tecnologia per Wired, Motherboard, Esquire e altre testate.


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