L’Italia (per ora) ha un “tesoretto” segreto per finanziare il suo debito. Grazie alla Banca centrale europea

13 giugno 2019
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L’Italia è un Paese dotato di risparmi cospicui. Le sue famiglie dispongono di una ricchezza netta di un valore pari all’incirca a 10mila miliardi di euro e di asset finanziari per oltre 4mila miliardi di euro. Ciò vuol dire che, in via di principio, il debito nazionale – che ammonta a poco più di 2mila miliardi di euro – potrebbe essere assorbito dagli stessi cittadini italiani. Inoltre il Paese, ormai da alcuni anni, ha un significativo avanzo delle partite correnti, nell’ordine del 3% del Pil, il che indica un surplus di risparmi domestici prolungato nel tempo.

L’idea, spesso ripetuta, che il debito italiano sia principalmente domestico, dunque, sembra plausibile di primo acchito. Tuttavia un’analisi più attenta dei dati rivela la necessità di compiere almeno due importanti precisazioni.

Le famiglie italiane non sono così “golose” di Btp

Prima di tutto, le famiglie italiane possiedono direttamente una quota molto piccola del debito pubblico. Le diverse fonti statistiche concordano sul fatto che le famiglie detengono titoli in maniera diretta per un valore di circa 100 miliardi di euro, cioè solo il 5% del debito pubblico che complessivamente ammonta a 2.250 miliardi. La spiegazione è semplice: tanta parte del debito è piuttosto nelle mani di intermediari finanziari italiani (banche, società d’assicurazione, fondi di investimento, eccetera), i cui clienti sono le famiglie italiane.

Quando lo scorso novembre il governo tentò di “aggirare” i mercati con un’emissione di titoli speciale dedicata alle famiglie, scoprì presto quanto sia difficile cambiare rapidamente questa tendenza. L’appello alle famiglie ad acquistare una quota importante del debito è caduto nel vuoto.

Un’altra conseguenza di questo dominio degli intermediari finanziari è che gli Italiani leggono e ascoltano le notizie sui tassi d’interesse e sui premi per il rischio che vanno su e giù, tuttavia non percepiscono direttamente le implicazioni che ciò ha per la loro situazione finanziaria. Per intenderci, il governo potrà pure rasserenare l’opinione pubblica sul fatto che le obbligazioni e i depositi bancari sono sicuri, ma viste l’esposizione delle banche rispetto al debito sovrano è evidente che qualsiasi default dello Stato dovrà comportare perdite anche per i clienti degli istituti di credito.

Attenzione a sottovalutare i compratori stranieri del nostro debito

La seconda precisazione è che la quota di debito pubblico dovuto agli stranieri è più elevata di quanto comunemente si creda. Le statistiche ufficiali ci dicono che circa 600 miliardi di euro di debito pubblico italiano sono detenuti all’estero. Varie stime, però, suggeriscono che circa un quarto di ciò consista in quote di fondi di investimento lussemburghesi o irlandesi detenute da famiglie italiane. I titoli davvero detenuti all’estero ammontano dunque a circa 450 miliardi di euro, appena sopra un quinto del totale del debito.

Ma non è finita qui. Un detentore chiave – ma sul quale spesso si sorvola – del debito pubblico italiano è la Banca d’Italia che ha in pancia titoli di Stato per un ammontare di circa 400 miliardi di euro. La maggior parte di questi titoli è stata acquistata nell’ambito del Quantitative Easing della Banca centrale europea (Bce), ovvero il programma chiamato ufficialmente “Public Sector Purchase Program” (PSPP). La Banca d’Italia è parte integrante del settore pubblico e restituisce al Tesoro la maggior parte degli interessi che guadagna su questi titoli. Ciò implica che quando la Banca d’Italia ha comprato questi titoli, abbiamo assistito a uno spostamento di risorse dalla tasca sinistra a quella destra dello Stato italiano, senza alcun cambiamento nell’indebitamento netto dello stesso Stato.

Tuttavia il fatto che la Banca d’Italia sia parte del settore pubblico si applica pure alle sue passività che devono essere considerate anch’esse come debito pubblico italiano. Le passività della Banca d’Italia sono aumentate, soprattutto da quando l’Istituto ha iniziato a comprare Btp per attuare il QE della Banca centrale europea, e sono passività nei confronti del resto dell’Eurosistema (cioè nei confronti della Bce e delle altre Banche centrali nazionali) nell’ambito del sistema di pagamenti Target II; esse ammontano oggi a oltre 400 miliardi di euro.

Ciò vuol dire che se uno consolidasse la Banca d’Italia col Tesoro, come d’altronde andrebbe fatto, circa 400 miliardi di euro di debito del settore pubblico italiano sarebbero dovuti a creditori esteri. Sommati ai 450 miliardi di titoli di stato detenuti all’estero di cui si è parlato sopra, vanno a costituire un “debito estero” totale di circa 850 miliardi di euro. Di conseguenza la quota di debito pubblico in mani straniere sale al 40-45% del totale, una porzione che è sempre inferiore alla metà ma che è quasi due volte più importante di quanto comunemente si creda.

Certo, questo “debito estero” implicito nel sistema Target II non dovrebbe essere considerato un fattore negativo. Il vantaggio decisivo del QE per l’Italia è stato che questa politica espansiva della Bce ha trasformato del debito sottoposto ai meccanismi di mercato (i Btp) in obbligazioni più opache nei confronti del resto dell’Eurozona (obbligazioni sulle quali, per il momento, non occorre nemmeno pagare interessi). Inoltre il debito nel sistema Target II non deve essere rinnovato. Costituisce dunque una fonte particolarmente stabile di finanziamento (indiretto). Ma il costo e la disponibilità di questi squilibri interni al Target II non possono essere controllati dallo Stato italiano. Il costo potrebbe crescere rapidamente non appena la Bce decidesse di aumentare i tassi di interesse, e il volume potrebbe essere ridotto se solo la BCE lo decidesse. Entrambi questi rischi, al momento, appaiono remoti. Lo Stato italiano può dunque contare su piccoli ma significativi risparmi generati dal fatto di avere passività a basso costo che non devono essere rifinanziate e che non sono soggette ai saliscendi dello spread.

Tag BTP, Europa, italia

L'autore

Daniel Gros è direttore del Centre for European Policy Studies (CEPS), Senior Fellow della LUISS School of European Political Economy e Member dell’Advisory Board del LUISS Center of Italian Mezzogiorno Studies


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