Capire la Russia non è attraversare un campo
1 luglio 2019
La profonda analisi del Professor Pellicani ripercorre le fasi importanti della storia e della formazione dell’identità culturale della Russia, lodevolmente illustrando le differenze che ancora separano il mondo russo da quello europeo. Purtroppo, concentrandosi proprio su queste differenze, senza illuminare le similitudini e le zone grigie nel mezzo, l’analisi si cade nella generalizzazione e nella semplificazione, e alla fine presenta un quadro incompleto della Russia, del modo in cui la Russia vede l’Occidente e dei rapporti fra la Russia e l’Europa.
Come può l’Europa provare ostilità (il sentimento su cui la guerra è basata, anche metaforicamente) verso la cultura russa quando è stata proprio l’Europa a darle quella cultura? Čaadaev ha scritto che “la Russia non ha dato niente al mondo, non gli ha insegnato niente, non ha introdotto una singola idea nella massa di idee umane, non ha contribuito al progresso della mente umana e tutto ciò che il progresso ha dato alla Russia, la Russia l’ha distorto” (1836). Infatti, vediamo che sin dal 988, quando il granduca Vladimir battezzò Kiev con il rito greco, per non parlare dei primi “governatori” degli slavi orientali che erano i vichinghi fermatisi a Novgorod durante la loro espansione nel nono secolo, tutti i processi e le idee politici, religiosi e artistici vennero in Russia dal territorio che oggi definiamo Europa.
Inoltre, dall’articolo di Pellicani sembra che non solo la cosiddetta “guerra culturale” fra l’Europa e la Russia sia un fenomeno perenne, esistito da quando la Russia si formò come nazione, ma che c’è un netto e distinto confine che ha sempre diviso e sempre dividerà la cultura russa da quella europea. Ma è veramente così?
Un po’ di storia
La Rus’ di Kiev, sebbene nata molto dopo il periodo classico, fu uno stato pienamente integrato nelle dinamiche europee, se così vogliamo chiamare le rivalità fra il Sacro Impero Romano e l’Impero romano d’Oriente. Essa fu una federazione molto potente e sfidava continuamente Costantinopoli, anche dopo che Vladimir prese in moglie la sorella dell’imperatore bizantino (la successiva moglie di Vladimir fu una nipote di Ottone il Grande, l’imperatore del Sacro Romano Impero). Kiev aveva una solida economia grazie a importanti materie prime e al controllo delle rotte commerciali fra la Scandinavia e Bisanzio e fra l’Europa occidentale e il Khanato di Khazaria nell’Est. Nell’XI secolo il figlio di Vladimir, Jaroslav il Saggio, che aveva sposato la figlia del re di Svezia, diede in matrimonio le sue tre figlie ai re di Francia, Norvegia e Ungheria, così formando alleanze nelle zone importanti dell’Europa. Aveva creato un diritto codificato, fondato chiese e diffuso lo studio ecclesiastico in tutto lo stato. La Rus’ di Kiev fu indiscutibilmente un pezzo chiave sulla scacchiera europea.
Purtroppo la sua potenza e la sua ricchezza svanirono nel Duecento quando fu rasa al suolo dai Mongoli. I nuovi padroni la tennero sottomessa per 250 anni, prosciugandola di risorse ed energie. È qui che nasce il tragico isolamento e allontanamento della Rus’ dai processi sociali dell’Europa occidentale, processi che nutrivano l’imprenditorialità e l’individualismo.
Ma anche quando la Rus’ prese “l’abitudine di considerare fondamentalmente eretico tutto quello che veniva dall’Europa occidentale, e di respingerlo come tale” – perché, come correttamente dice Pellicani, “i precetti della Chiesa greco-ortodossa adempirono all’ufficio della sua ideologia” – lo fece per istinto, come associata della Chiesa greco-ortodossa e poi come sua erede. Ma sostanzialmente quella “aggressione culturale” fra Est e Ovest esisteva già da secoli, prima del Grande Scisma del 1054 e prima della nascita di Kiev. Si può persino dire che il suo presupposto fu il trasferimento della capitale dell’Impero romano a Costantinopoli, dove dopo qualche secolo il greco divenne la lingua ufficiale. Pertanto, l’aggressione culturale era un fenomeno europeo, una caratteristica sviluppatasi durante l’evoluzione dei rapporti fra la prima Roma e la seconda Roma, e non fra l’Europa e la Rus’. La Rus’ aveva soltanto assorbito la diffidenza che Bisanzio già aveva verso l’Occidente.
Nel 1480, ventisette anni dopo la caduta di Costantinopoli, la Moscovia si liberò dal giogo mongolo e si risvegliò come l’unica Chiesa ortodossa indipendente nel mondo. Si sentì esclusiva: era sopravvissuta a una brutale dominazione e nella sua identità religiosa non aveva uguali in nessuna parte del mondo. Così il concetto della Terza Roma: l’ultima, più perfetta civiltà umana che creerà il Regno di Dio sulla Terra.
Ma anche in questo delirio megalomaniaco non si può dire che la Russia provasse ostilità verso tutto ciò che veniva dall’Occidente. Nel Quattrocento lo zar Ivan III invitò gli architetti italiani a Mosca per costruire il Cremlino. Suo nipote Ivan IV concesse all’Inghilterra un monopolio commerciale in Russia e per consolidare l’alleanza persino chiese la mano della Regina Elisabetta I. All’inizio del Seicento lo zar Boris Godunov continuava ad invitare specialisti occidentali per sviluppare il suo regno e mandava i giovani russi a studiare nelle capitali europee.
Pare che Pellicani ometta deliberatamente il periodo dell’Impero russo (1721-1918) per rendere la divisione fra la Russia e l’Europa più cospicua possibile. Pietro il Grande era riuscito a riportare la Russia (dopo 500 anni) sulla scacchiera europea, latinizzando i suoi codici culturali e secolarizzando la società dopo un secolo di teocrazia. Il suo titolo imperator era un diretto riferimento alla prima e non alla seconda Roma, così come il nome della nuova capitale. La nuova Russia entrò nella Lega Santa contro i turchi, forgiò un’alleanza con gli Asburgo, partecipò alle guerre della coalizione contro Napoleone, colonizzò l’Alaska per poi venderla agli Stati Uniti, a partire da Caterina II tutte le zarine erano tedesche e così via. Senz’altro era diversa (un po’ più rozza) perché era un nuovo arrivato, un arrivato che aveva avuto una evoluzione molto singolare, ma nessuno avrebbe detto che non apparteneva al mondo europeo. Anzi, i legami culturali erano così forti che alcuni scrittori russi dell’Ottocento (che non erano affatto occidentalisti) avevano preparato il terreno per i più grandi pensatori europei del Novecento (Freud, Russell, Sartre, ecc.).
Divergenze sostanziali
Quando Pellicani parla della Rivoluzione d’Ottobre e dell’Unione Sovietica le presenta come processi che hanno definitivamente e irreversibilmente separato la cultura russa da quella europea. È facile cadere nella trappola pensando che la rivoluzione bolscevica “fu una vittoriosa reazione contro il processo di occidentalizzazione della Russia”, perché in effetti il proletariato russo discendeva dagli strati che non erano stati toccati dall’occidentalizzazione di Pietro il Grande e quindi provava una certa avversione fisiologica verso quella cultura; o che la rivoluzione fu una “ribellione asiatica contro il capitalismo dell’Europa occidentale”. Ma se così fosse dovremmo pensare che Marx, Engels, Proudhon, Fourier, ecc. fossero orientali, che nell’Occidente i lavoratori non si sentissero sfruttati dai capitalisti proprietari, che non ci fossero i moti del 1848, che l’URSS non ospitasse giornalisti come John Reed e politici come Palmiro Togliatti perché provenivano dall’Occidente, che non ci fosse sostegno ideologico per l’URSS dai partiti comunisti europei durante il XX secolo e così via. Malgrado Lenin e Stalin avessero distorto il sistema comunista di Marx (centralizzando il potere, escludendo il cittadino dalla partecipazione politica, ecc.), il volto del paese – che fra l’altro, come mostra la storia, (per adesso) deve avere un forte apparato centrale per rimanere unito – sia stata un volto socialista, anticapitalista. La differenza principale è che per l’Occidente il comunismo è stato soltanto un sistema politico-economico, mentre per la Russia il comunismo significava “un grandioso processo cosmico-storico la cui meta finale era la creazione di una nuova civiltà” mondiale, di Paradiso (proletario) sulla Terra.
Pellicani fa bene a citare il paragone di Berdjaev fra il Messianesimo della Terza Roma e il Messianesimo della Terza Internazionale, ma si lascia sfuggire il fatto che l’idea che il comunismo fosse “l’ultima e definitiva forma di organizzazione dell’umana famiglia” (Marx ed Engels), così come l’idea hegeliana del percorso teleologico che porta all’Assoluto (che è stata integrata nelle filosofie sia dei rivoluzionari materialisti che degli slavofili nella Russia dell’Ottocento), sono nate in Europa.
L’identità sovietica
Qui arriviamo al punto cruciale dell’identità sovietica (Terza Internazionale), che è solo un risveglio dell’identità della Santa Russia (Terza Roma).
Non c’è dubbio che l’URSS aveva negato l’individualismo e la libertà individuale dell’essere umano. Lo hanno fatto anche i regimi fascisti occidentali, ma stranamente Pellicani non ha accennato a questa somiglianza, volendo relegare l’autoritarismo fra le caratteristiche del popolo russo. Ma il punto non è questo. Il punto è che bisogna valutare la possibilità di una interpretazione relativistica dei fenomeni “libertà” e “individuo”. Usiamo una spiegazione fornita dal filosofo e politologo russo Alexander Dugin in un’intervista rilasciata all’Economist nel 2017 che parla della Russia come di una sacra monarchia: “Cos’è un soggetto? Nella logica europea, voi siete i soggetti, il singolo è il soggetto. Per noi non è affatto così. Lo zar è il soggetto, il leader. E noi siamo una parte di questa figura. È una soggettività radicalmente diversa da quella dell’Occidente democratico. In noi c’è il vitalismo. C’è un’altra differenza. Non si tratta di un autoritarismo imposto dall’alto. È un autoritarismo richiesto dal basso. È una sorta di monarchia prima della monarchia. Non è una dittatura voluta forzatamente dal dittatore, ma è richiesta dalla maggioranza, perché è una richiesta per la presenza di un soggetto. Il nostro soggetto è olistico, non individualistico… noi apparteniamo al tipo di società in cui l’identità è collettiva. Olistica. Io, singolo, non sono l’uomo. Io sono una parte dell’uomo. La mia gente, il mio paese, il mio stato, il mio zar – o un leader – è l’uomo. Intendiamo in modo del tutto differente ciò che è umano. Per noi, i diritti umani sono i diritti dello zar, i diritti di Putin, non i miei, perché non sono io il soggetto. Sono una parte: la mia libertà dipende dalla libertà del mio paese e della mia gente. Non potrei mai essere individualmente libero se il mio paese e la mia gente fossero ridotti in schiavitù. È questa l’essenza del nostro appartenere.”
La sacra monarchia è proprio quella “simbiosi quasi totale tra Stato e Chiesa” di cui parla Pellicani all’inizio del suo articolo: “lo zar e i suoi sudditi si definiscono attraverso la loro appartenenza alla Chiesa ortodossa”. O l’appartenenza al Partito comunista, se trasposto all’URSS. Deriva esattamente dal sistema cesaropapista bizantino (la Seconda Roma), che a sua volta deriva dal sistema di imperatore come Pontefice Massimo (la Prima Roma) – il leader semidivino di uno stato che univa tutto il mondo (o almeno dall’Atlantico all’Armenia), il leader che “collegava” con l’aldilà, che trasportava l’umanità al Dio (Dei).
La Russia oggi
Certamente non tutti i russi di oggi vanno pazzi per l’idea della sacra monarchia. A Mosca, San Pietroburgo e le altre megalopoli tutti vogliono fortemente uno stato basato su “l’autonomia della società civile, l’uso pubblico della ragione in tutti i campi e la nomocrazia”. Direbbero, fra l’altro, che Dugin è un filosofo poco attendibile. Mentre nelle province le condizioni economiche non consentono lo sviluppo di un pronunciato senso d’individualismo e la dipendenza dallo Stato (con tutte le sue prepotenze) rimane rilevante. È lo scontro fra quelli che s’identificano con la legge e quelli che s’identificano – involontariamente o volontariamente – con il legislatore.
La Russia, con i suoi forti contrasti e le sue contraddizioni, non è facile da capire. E l’ignoto che rappresenta può ispirare più paura dell’illusione che la Russia di oggi possa attaccare l’Occidente. Tuttavia, le differenze fra i due mondi, che riguardano più la configurazione dei parametri culturali che i parametri stessi, non devono impedire l’interazione fra i popoli. L’identità di una nazione è sempre un insieme di elementi, alcuni dei quali sono stati prestati da altre nazioni. Prestati non con l’innalzamento dei muri, come sta accadendo nei nostri tempi, ma attraverso la costruzione dei ponti.
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