Russia-Europa: viaggio alle origini della divergenza culturale. Risponde Pellicani

11 luglio 2019
Editoriale Europe
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Prima di tutto, ringrazio Serge Tseytlin per l’attenzione con la quale ha letto il mio saggio sulla guerra culturale fra la Russia e l’Europa. Subito dopo, però, devo dire che la sua critica si basa su un grave fraintendimento. Io non ho mai detto che fra la Russia e l’Europa esiste un muro insuperabile. Tutto il contrario: basandomi sulla teoria dell’aggressione culturale elaborata da Arnold Toynbee, ho sottolineato che la società russa è stata dominata, per generazioni e generazioni, dal conflitto  fra “erodiani” e “zeloti”. I primi intendevano occidentalizzare il loro Paese; i secondi, alla rovescia, rifiutavano i valori europei. Una guerra culturale che , in particolare, ha lacerato le viscere intellettuali e morali della intellighenzia russa e che troviamo in una forma quasi idealtipica nel Partito socialdemocratico russo dove, mentre Martov concepiva il socialismo come “universalizzazione dell’individualismo”, Lenin stigmatizzava  la “politica operaia liberale” come “una grave malattia” a motivo che intendeva “europeizzare la Russia”.

Ho anche sottolineato il fatto che agli inizi del XX secolo gli “erodiani” stavano conseguendo – grazie a una serie di importanti riforme economiche e politiche – una storica vittoria: la piena occidentalizzazione del loro Paese e, di conseguenza, la fine della guerra culturale fra la Russia e l’Europa.

Le cose, però, sono andate in direzione opposta. È accaduto che il partito “erodiano” – composto da menscevichi, socialisti rivoluzionari e liberali – è stato sconfitto da un partito che, a dispetto del fatto che si richiamava a una ideologia  prodotta dall’Europa,  era dominato da una radicale ostilità nei confronti dell’Occidente; la quale, però,  non si estendeva alla moderna tecnologia. Anzi, l’obbiettivo – mille volte proclamato – del Partito bolscevico era l’industrializzazione a marce forzate della Russia. Ciò ha fatto emergere l’idea che il sistema sovietico era una Modernità alternativa. Tale idea, del tutto erronea,  è nata dal fatto che spesso gli studiosi hanno identificato la Modernità con l’economia industriale. Ma la Modernità  non è solo l’industria e la tecnologica scientificamente orientata; la Modernità è anche – anzi, soprattutto – un assetto istituzionale centrato su quella che  Constant chiamava “la libertà dei moderni” ed esaltava come “il trionfo dell’individualismo”.  Ed è stato  proprio l’individualismo la bestia nera della rivoluzione bolscevica, animata dall’idea –  espressa con la massima chiarezza da Lenin –  che “tutto doveva essere pubblico e nulla privato” e che il Partito doveva lottare accanitamente contro coloro che intendevano modellare le istituzioni della nuova società  imitando quelle del modello occidentale.

C’è di più: il partito “zelota” al potere ha invertito i rapporti fra la Russia e l’Europa. Infatti, prima era la Russia che subiva l’aggressione culturale, ma, a partire dalla instaurazione della dittatura totalitaria del Partito bolscevico, è stata la Russia ad aggredire l’Europa. E lo ha fatto grazie alla trasformazione del marxismo in una potente arma ideologica centrata sulla chiamata rivoluzionaria alle armi contro l’Occidente bollato come un vorace vampiro che si nutriva del sangue dei popoli del Terzo Mondo.

In conclusione, ben lungi da me l’idea che l’autoritarismo sia un fenomeno perenne e che esso sempre dividerà la cultura russa da quella europea, e parimenti lungi da me l’idea che l’autoritarismo sia un fenomeno specificamente russo. Infatti, nel mio libro L’Occidente e i suoi nemici, ho scritto decine di pagine sul totalitarismo dei fascismi nati in Europa. In aggiunta,  ho sottolineato – e con il massimo vigore – che il conflitto fra il principio collettivistico e il principio individualistico è stato permanente anche in Europa. E lo è stato a tal punto che giustamente Karl Popper e José Ortega y Gasset  hanno descritto la storia della civiltà occidentale come una guerra  fra la “società chiusa” e la “società aperta”.

L'autore

Luciano Pellicani è sociologo, giornalista e docente emerito alla LUISS


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