Il metodo Spielberg o come raggiungere il successo prendendo la terza porta

1 agosto 2019
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Il cortile esterno della facoltà di Cinema era stato allestito per sembrare tutto fuorché quello di una facoltà universitaria. Su un vialetto era stato steso un tappeto rosso, nel curatissimo giardino erano stati sistemati dei tavolini alti e dei camerieri in smoking sfilavano elegantemente tra i presenti portando dei vassoi di antipasti. Mi mescolai alla folla dei donatori per ascoltare il discorso di benvenuto della preside. La preside era poco più alta del podio, eppure l’uditorio pendeva dalle sue labbra. Con le mani che mi tremavano, mi sistemai la giacca del completo e cominciai lentamente ad avanzare. A solo tre metri da me, uno accanto all’altro, c’erano Steven Spielberg, George Lucas, il regista di Guerre Stellari, Jeffrey Katzenberg, l’amministratore delegato della Dreamworks Animation, e l’attore Jack Black. Quando ero entrato, ero solo un po’ nervoso, ma adesso ero completamente nel panico. Come avrei fatto ad avvicinarmi a Spielberg mentre era nel bel mezzo di una conversazione con l’uomo che aveva creato Darth Vader e Luke Skywalker? Che cosa avrei potuto dire, “Scusami George, potresti farti da parte?”. Mentre la preside andava avanti con il suo discorso, mi avvicinai ancora un po’. Spielberg era così vicino che riuscivo a distinguere le cuciture della sua giacca grigio scuro. Portava un basco un po’ rétro sui capelli radi; delle rughe leggere gli ingentilivano gli occhi. Eccolo qui, davanti a me – l’uomo che aveva creato E.T., Jurassic Park, Indiana Jones, Lo squalo, Schindler’s List, Lincoln, Salvate il soldato Ryan – e non dovevo fare altro che aspettare che la preside finisse di parlare.

Nel cortile risuonò uno scroscio di applausi. Cercai di fare gli ultimi passi che mi separavano da Spielberg, ma i piedi erano come diventati di pietra. Sentii un gigantesco nodo alla gola. Sapevo molto bene cosa mi stava succedendo. Era la stessa sensazione che provavo a scuola, quando cercavo di avvicinarmi a una ragazza che mi piaceva. L’avevo chiamata la Scossa. Ricordo che la prima volta in cui ho sentito la Scossa avevo sette anni. Durante la pausa per il pranzo, me ne stavo seduto a un tavolo della mensa scolastica e mi guardavo attorno: Ben aveva le patatine fritte e le barrette ai cereali, Harrison aveva un panino al tacchino con il pane senza crosta, e poi c’ero io, con un grosso recipiente di plastica pieno di riso alla persiana con verdure e fagioli rossi stufati. Quando avevo sollevato il coperchio, l’odore si era sparso ovunque. I bambini che erano intorno a me avevano cominciato a indicarmi e a ridere, chiedendomi se per pranzo mi avessero dato uova marce. Da quel giorno, avevo sempre tenuto il mio contenitore Tupperware nello zaino e per mangiare il pranzo avevo aspettato che finissero le lezioni, quando ero solo. La Scossa ha cominciato a manifestarsi quando avevo paura di essere visto come diverso, ma crescendo si è trasformata in qualcosa di più. Mi prendeva ogni volta che a scuola mi chiamavano Banayan il ciccione, ogni volta che l’insegnante mi sgridava perché prendevo la parola senza alzare la mano e ogni volta che una ragazza si mordeva il labbro e scuoteva la testa quando le confessavo che mi piaceva. Questi attimi si sono a poco a poco sommati, stratificandosi uno sopra l’altro, finché la Scossa non è diventata quasi una creatura in carne e ossa. Avevo il terrore di essere rifiutato e mi sentivo mortificato se commettevo qualche errore. Proprio per questo la Scossa mi paralizzava nei momenti peggiori, prendeva possesso delle mie corde vocali e trasformava le mie parole in un incomprensibile, farfugliante balbettio. E la Scossa non mi aveva tenuto tanto in pugno come quando mi ritrovai a pochi centimetri da Steven Spielberg. Rimasi lì a fissarlo, sperando che mi venisse in mente una frase per rompere il ghiaccio. Ma, prima che ci riuscissi, qualcuno lo trascinò via. Lo vidi che passava da un gruppo di persone all’altro, sorridendo e stringendo mani. La festa sembrava ruotare attorno a lui. Guardai l’orologio: mi restava un’ora di tempo. Andai al bagno degli uomini per sciacquarmi il viso con un po’ di acqua fredda. L’unica consolazione era che Spielberg probabilmente avrebbe capito quello che stavo passando. Perché stavo cercando usare con Spielberg proprio la tecnica di Spielberg.

Steven Spielberg ha iniziato quando aveva esattamente la mia età. Avevo letto diversi racconti al riguardo, ma, stando a quello che mi ha detto lui, è successo così: era salito su un autobus turistico che faceva il giro degli Universal Studios Hollywood, era rimasto a bordo per una parte del giro e poi era saltato giù, si era intrufolato in un bagno e si era nascosto dietro un edificio. Aveva aspettato che l’autobus si allontanasse e aveva passato il resto della giornata all’interno degli studi Universal. Mentre gironzolava, si era imbattuto in un uomo che si chiamava Chuck Silvers e lavorava per il canale televisivo Universal. Si erano messi a chiacchierare. Quando Silvers aveva scoperto che Spielberg era un aspirante regista, gli aveva dato un pass valido per tre giorni. Spielberg era tornato per i tre giorni successivi e si era presentato anche al quarto, ma con indosso un completo e la valigetta di suo padre. Spielberg era arrivato all’ingresso, aveva fatto un cenno di saluto e aveva detto Ciao, Scotty! – e la guardia aveva ricambiato il saluto. Per i tre mesi seguenti, Spielberg aveva continuato ad arrivare all’ingresso, a salutare e a entrare come se niente fosse. All’interno degli studi, aveva cominciato a frequentare le star di Hollywood e i dirigenti, e a invitarli a pranzo. Spielberg entrava di nascosto nei teatri di posa e nelle cabine di montaggio, cercando di assimilare più nozioni che poteva. Era uno che non era stato ammesso alla scuola di Cinema, perciò, ai miei occhi, quello era il suo personale metodo di studio. A volte, infilava un completo in più nella valigetta, passava la notte in uno degli uffici, e la mattina dopo si cambiava e rientrava negli studi. Alla fine, Chuck Silvers era diventato il mentore di Spielberg. Silvers gli aveva consigliato di smetterla di stare addosso ai pezzi grossi e di tornare quando avesse avuto un valido cortometraggio da far vedere. Spielberg, che realizzava cortometraggi da quando aveva dodici anni, aveva cominciato a scrivere un film di ventisei minuti intitolato Amblin’. Dopo mesi di duro lavoro alla regia e al montaggio, lo aveva finalmente fatto vedere a Chuck Silvers. Era talmente bello che Silvers, dopo averlo visto, non era riuscito a trattenere le lacrime. Silvers aveva alzato il telefono e aveva chiamato Sid Sheinberg, il vice presidente del canale televisivo della Universal. “Sid, ho qui una cosa che devi vedere.” “Qui ne ho un mucchio, di film da vedere, maledizione… Se tutto va bene, riesco a uscire prima di mezzanotte.” “Questo deve andare dritto in cabina di proiezione. Dovresti vederlo stasera stessa.” “Cavolo, credi davvero che sia tanto importante?” “Cavolo, sì, credo proprio che sia tanto importante. Se non lo guardi tu, lo guarderà qualcun altro.” Sid Sheinberg, dopo aver visto Amblin’, aveva chiesto di incontrare immediatamente Spielberg. Spielberg si era precipitato alla Universal e Sheinberg gli aveva proposto subito un contratto di sette anni. E fu così che Spielberg diventò il più giovane regista nella storia di Hollywood.

All’inizio, quando avevo letto questa storia, pensavo che Spielberg si fosse giocato la carta delle “conoscenze” – andandosene in giro per gli studi e cercando di entrare in contatto con le persone giuste. Ma io con “entrare in contatto” intendevo scambiarsi i biglietti da visita a un evento. Nel suo caso, non si trattava di puntare sulle “conoscenze”. Era molto di più. Si trattava del metodo Spielberg.

1. Saltare giù dal bus turistico.

2. Individuare un Infiltrato.

3. Chiederle/gli di farti entrare.

Mi resi conto che il punto più importante era trovare l’“Infiltrato” – qualcuno che lavorasse all’interno della struttura e che fosse disposto a giocarsi la reputazione per farti entrare. Se Chuck Silvers non avesse dato a Spielberg il pass per tre giorni, o non avesse chiamato il vice presidente della produzione insistendo perché vedesse il film, Spielberg non avrebbe mai potuto avere il contratto. Naturalmente, Spielberg ha un talento eccezionale, ma anche altri aspiranti registi ce l’hanno. C’era un motivo, se lui ha avuto il contratto e molti altri no. Non si è trattato di magia. E nemmeno di semplice fortuna. È stato il metodo Spielberg. Guardai la mia immagine riflessa nello specchio del bagno. Mi resi conto che se non fossi riuscito ad avvicinare Spielberg quando era proprio di fronte a me, la missione sarebbe finita ancora prima di cominciare. Mi mescolai agli invitati finché non lo rividi. Quando Spielberg si spostava su un lato del cortile, io mi spostavo su quello opposto. Quando si fermava a parlare con qualcuno, io mi fermavo a guardare il cellulare. Dopo aver fatto un salto al bar per prendere una Coca-Cola, diedi un’occhiata al cortile e per poco non mi venne un colpo – Spielberg se ne stava andando. Senza pensarci due volte, mi liberai del bicchiere e lo inseguii. Mi gettai tra la folla schivando i donatori, evitando i camerieri e facendo lo slalom tra i tavolini. Spielberg era a pochi metri dall’uscita. Rallentai, nel tentativo di avvicinarmi proprio al momento giusto. Ma non avevo tempo per le sottigliezze. “Ehm, scusi, signor Spielberg. Mi chiamo Alex e sono uno studente della USC. Posso… posso farle una domanda mentre va a prendere l’auto?” Si fermò e si voltò a guardarmi, inarcando le sopracciglia fin sopra la montatura di metallo dei suoi occhiali. Slanciò le braccia verso di me. Mi abbracciò. “Sono al campus da ore e tu sei il primo studente della giornata che incontro! Sarò felicissimo di rispondere alla tua domanda.” Il calore della sua risposta fece completamente svanire la Scossa e, mentre raggiungevamo il parcheggiatore, gli raccontai della mia missione. Parlai di getto, come fossi in trance. Non gli stavo facendo il solito discorso da venditore. Stavo parlando di qualcosa in cui credevo. “Signor Spielberg, so che ci siamo appena conosciuti, ma…” sentii tornare il nodo alla gola “mi… mi concederebbe un’intervista?”. Si fermò di nuovo e si voltò lentamente a guardarmi. Strinse le labbra e chiuse gli occhi come se le palpebre fossero di piombo. “Generalmente rispondo di no” disse. “Di solito non concedo interviste, a meno che non siano per conto della mia fondazione o per promuovere un film.” Ma poi il suo sguardo si addolcì. “Anche se generalmente dico di no… per qualche strano motivo, magari da te mi farò intervistare.” Fece una pausa e guardò il cielo, strizzando gli occhi, nonostante la luce del sole non fosse così accecante. Non saprò mai a cosa stesse pensando, ma alla fine abbassò la testa e mi guardò dritto negli occhi. “Realizza il tuo sogno” disse. “Datti da fare per farti concedere le altre interviste. Poi torna da me e vedremo cosa possiamo fare.” Parlammo ancora per un minuto e poi mi salutò. Si avvicinò alla sua auto, ma poi si voltò di scatto, guardandomi per un’ultima volta. “Sai,” disse guardandomi negli occhi “qualcosa mi dice che ce la farai davvero ad arrivare fino in fondo. Io credo in te. Credo che puoi farcela”.

La terza porta

Viaggio alla scoperta dell'arte di farcela

Alex Banayan
Luiss University Press

Scheda

L'autore

(1992) è nato negli Stati Uniti da genitori iraniani rifugiati. A diciott’anni, appena entrato al college, ha investito la grossa vincita a un quiz televisivo in un viaggio – durato sette anni – alla ricerca dei segreti delle persone di successo. Oggi si occupa di venture capital, e la rivista Fortune lo ha definito “il più giovane nel suo campo”.


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