La nuova guerra non si combatte in trincea ma nei cieli digitali
1 agosto 2019
Per quanto l’attenzione del governo degli Stati Uniti si concentri sull’intelligenza artificiale, il focus delle preoccupazioni americane – anche sul piano internazionale – alla competizione per la leadership tecnologica sembra essere il 5G. È questo il terreno sul quale l’America ha la sensazione di essere all’inseguimento di una Cina che brucia le tappe. Ricordiamolo ancora una volta: il 5G è la tecnologia di telecomunicazioni senza la quale non si costruiscono le smart city, non si connette l’Internet of Things, l’intelligenza artificiale non muove le fabbriche del futuro, non nascono le interfacce tra uomo e macchine. È l’Apriti Sesamo! che dischiude la grotta della nuova rivoluzione digitale.
Quando gli Stati Uniti si rendono conto che una compagnia cinese, Huawei, sembra aver preso la leadership nella corsa al 5G e che la Cina è in testa nello sviluppo delle nuove reti, l’allarme sale al massimo grado. Uno studio di Deloitte nel 2018 misura il vantaggio conquistato da Pechino in termini di densità delle infrastrutture per le telecomunicazioni mobili, le torri e le celle utilizzabili per il 5G: mentre negli Stati Uniti vi sarebbero 4,7 siti ogni diecimila abitanti, in Cina il rapporto è di 14,1 per diecimila abitanti. La misura della superiorità cinese è ancor maggiore, secondo Deloitte, se si considera la densità di siti rispetto al territorio invece che alla popolazione: 0,4 siti ogni dieci miglia quadrate in America, a fronte di ben 5,3 in Cina (il Giappone ne conta addirittura 15, ma in questo caso il numero assoluto è assai più basso; anche i 5,1 della Germania attestano un buon posizionamento). Il 5G è una rete di small cell, che richiede una densità fino a dieci volte superiore a quella delle tecnologie di telecomunicazioni mobili precedenti, perché solo con una simile concentrazione d’infrastrutture si possono avere la velocità e la capacità di trasmissione che fanno del 5G il grimaldello per il mondo del digitale futuro.
Il 5G si presta ad accuse e sospetti a tutto campo, soprattutto sul piano giornalistico, per le evidenti connessioni che le telecomunicazioni hanno con lo spionaggio e la sicurezza nazionale. La campagna diplomatica e di stampa scatenata da Washington contro Huawei, per preparare il terreno all’embargo contro questa società, ha utilizzato un vasto repertorio di sospetti e timori. Si tende però spesso a confondere problemi diversi. Il primo è la “disinvoltura” con la quale, soprattutto nel recente passato, una generazione di copycat cinesi ha copiato tecnologia occidentale nel contesto della selezione darwiniana che ha costruito le fondamenta dell’industria manifatturiera per beni di consumo, anche high-tech, rivolti ai mercati internazionali e al nascente mercato nazionale; copycat che, tuttavia, non sarebbero sopravvissuti a quella spietata competizione senza una straordinaria capacità di adattarsi alle esigenze del consumatore cinese. Quella fase è, almeno in parte, alle spalle, anche per i provvedimenti del governo cinese volti a consolidare gli Intellectual Property Rights (IPR), per consentire un più solido sviluppo alle imprese nazionali e alla loro proiezione internazionale.
Un secondo ordine di problemi discende dai vincoli posti agli accordi di partnership tra imprese cinesi e occidentali per joint venture in Cina, accordi nei quali spesso appaiono obblighi relativi al trasferimento di tecnologia. In questo caso, siamo non sul terreno dell’illecita sottrazione di proprietà intellettuale, ma su quello delle condizioni imposte per l’ingresso di capitali occidentali, che il governo americano considera però una sorta di “furto di Stato”, clausole vessatorie ingiuste per le imprese statunitensi e pericolose per la sicurezza nazionale dell’America. Il trasferimento di tecnologia, infatti, secondo Washington, non solo rappresenta una cessione di proprietà intellettuale senza corrispettivo ma anche un travaso di know-how che mina la superiorità americana tanto nell’industria quanto sul piano militare.
Un terzo distinto problema riguarda invece lo spionaggio in senso stretto, di cui le tecnologie e gli apparati per le telecomunicazioni sarebbero strumento. Risalgono al 2012, dunque ai tempi di Obama, un rapporto del Permanent Select Committee on Intelligence della Camera dei Rappresentanti di Washington sulla minaccia alla sicurezza nazionale rappresentata dalle società di telefonia cinesi, Huawei e Zte, e un report della US-China Economic and Security Review Commission sul cyber-spionaggio cinese. L’amministrazione Trump ha fatto di questi sospetti un elemento centrale nella costruzione della propria politica. Ovviamente tutti spiano tutti, e gli stessi analisti americani ammettono che le rilevazioni di WikiLeaks del 2013 sullo spionaggio tecnologico americano hanno avuto un ruolo non marginale nel convincere Pechino a dare una stretta alla politica industriale orientata alla ricerca dell’autonomia tecnologica, anche se la differenza rispetto alla minaccia cinese starebbe nel fatto che la National Security Agency (NSA) americana svolgerebbe le proprie attività senza l’attiva cooperazione delle imprese di telecomunicazioni o della digital economy statunitensi, mentre in Cina l’intreccio tra governo e imprese anche sul piano dello spionaggio sarebbe strutturale.
Nella narrazione americana della competizione per la leadership tecnologica, il 5G assume dunque un ruolo centrale, anche verso i partner internazionali degli Stati Uniti, chiamati a raccolta contro una minaccia che riguarderebbe anche la loro sicurezza. Emerge in primo piano l’esigenza strategica del controllo della supply chain del 5G, una filiera industriale molto articolata, che presenta una pluralità di nodi tecnologici sensibili. Controllare questi nodi significa avere il potere di condizionare, rallentare o perfino bloccare la produzione di un paese rivale, colpendolo non solo nello sviluppo delle telecomunicazioni ma in tutte le industrie che da queste dipendono, dai servizi per le smart city alla manifattura intelligente agli armamenti.
Hanno così preso forma due strategie gemelle, negli Stati Uniti e in Cina, focalizzate sul controllo della supply chain del 5G, correttamente individuato come fattore decisivo per la leadership tecnologica, industriale e geopolitica. Queste strategie speculari mirano a interdire al rivale la costituzione di posizioni di sostanziale monopolio nella fornitura di componenti tecnologiche e, al contempo, acquisire a proprio vantaggio tali esclusive capacità produttive. Come osserva con preoccupazione uno studio della Commissione europea, una conseguenza delle acquisizioni di imprese europee da parte cinese è spesso il riorientamento delle supply chain verso fornitori cinesi. Non è però facile smontare l’intreccio tra industrie di paesi diversi cresciuto negli anni della globalizzazione senza vincoli, dagli anni Novanta alla metà del secondo decennio del XXI secolo. Il 5G cinese ha ancora bisogno di componenti americane, in primo luogo nel segmento critico dei semiconduttori; ma in generale la dipendenza è reciproca, con componenti cinesi negli apparati statunitensi.
La fotografia ravvicinata degli intrecci mostra una realtà complessa. Se ci si ferma a considerare il mercato degli apparati 5G nel loro insieme, sembrerebbe non esserci dubbio sul ritardo americano. Nel 2017, questo mercato era in mano a cinque società, e nessuna di queste era statunitense. Nella top list troviamo infatti due gruppi cinesi, Huawei con più del 25 per cento del mercato, e ZTE poco sopra il 10 per cento; e due società europee, Ericsson, più o meno al livello di Huawei, e Nokia, ben piazzata con una quota superiore al 20 per cento. Distanziata, con meno del 5 per cento del mercato, è Samsung, coreana. Partita persa per gli Stati Uniti? No, se guardiamo più da vicino. In una componente fondamentale della parte core della rete, i router e gli ethernet switch, il 90 per cento del mercato è in mano a quattro sole società, due delle quali americane, una europea e una cinese (la solita Huawei). Se analizziamo in modo ancor più dettagliato, scopriamo che il mercato mondiale dei microchip necessari agli ethernet switch nel 2018 è per il 94,5 per cento controllato da una società statunitense, Broadcom. Anche in molte componenti delle microcelle che costituiscono una rete 5G la leadership americana è solida: di fatto, in mano a due sole società, entrambe americane, è la produzione di un altro chip, la cui sigla FPGA non suggerisce niente ai non-specialisti (è l’acronimo di Field Programmable Gate Array), ma senza il quale non funzionerebbe lo slicing, l’utilizzo flessibile della banda che costituisce uno dei vantaggi del 5G. La filiera del 5G è fatta d’intrecci, nei quali la leadership di mercato è a geometria variabile. In una fase di globalizzazione non conflittuale, questo creava interdipendenze positive e vantaggi per tutti. In un’era di competizione per la leadership tecnologica, gli stessi intrecci sono fonte di timori, sospetti e ansietà sulla tenuta della propria sovranità economica e politica. Ansietà, peraltro, non ingiustificate.

Guerra digitale
Lo scontro tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico
Luiss University Press
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