L’azienda familiare: non solo un vincolo di sangue ma anche trasmissione di valori e passioni

2 agosto 2019
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Tutto quello che è stato scritto sul capitalismo familiare ha l’etichetta di “cose che riguardano le aziende familiari” o “passaggio generazionale”. Questo succede perché chi ne scrive non ha il punto di vista giusto; l’imprenditore, il capofamiglia non vede la sua azienda come familiare, vede la sua azienda e la sua famiglia insieme.
Il primo passo, per inquadrare l’argomento, è spostare la prospettiva da cui il fenomeno della proprietà di imprese da parte di azionisti appartenenti alla stessa famiglia si guarda. Il punto di partenza non è un’azienda che si trova nello speciale caso di avere degli azionisti appartenenti ad una stessa famiglia, il punto di partenza deve essere un insieme di persone legate da un vincolo di sangue che ha deciso di proseguire insieme la propria attività imprenditoriale. Questo permette di rendere dinamico il modello di analisi visto con gli occhi dei soggetti decisori: il fondatore, l’imprenditore e la famiglia.
La famiglia imprenditoriale è il centro di tutto; per spiegarci meglio dobbiamo chiedervi di avere pazienza e partire da lontano.

Joseph Schumpeter è il padre fondatore della teoria accademica sull’imprenditore. A 43 anni dopo una non troppo fortunata carriera da banchiere iniziò la sua carriera accademica all’Università di Bonn e nel 1932, a 49 anni, si trasferì negli Stati Uniti e continuò la sua carriera accademica all’Università di Harvard. Fu ad Harvard che nel 1942 pubblicò la sua opera più importante Capitalismo, Socialismo e Democrazia, opera che ha dato vita al ruolo dell’imprenditore nella teoria economica, che prima di Schumpeter conosceva solo il capitale e il lavoro. Schumpeter ha così definito l’attività imprenditoriale:

Questa realizzazione del nuovo nell’economia non è un lavoro di routine, anzi per certe caratteristiche peculiari è il suo contrario: rappresenta un compito particolare e ha le difficoltà e i rischi particolari che sono propri di ogni agire che non segua i tracciati dell’esperienza collaudata dalla pratica; richiede altre qualità sia d’intelletto sia di volontà. Si tratta di qualità rare, e chi le ha, riesce a essere il primo o uno dei primi che nell’economia nazionale realizza qualcosa di nuovo, impiega un nuovo metodo di produzione, fabbrica e vende un nuovo articolo, apre un nuovo mercato, e riesce anche a sfuggire in un primo momento alla pressione della concorrenza… L’essenza dell’imprenditore consiste nell’assolvere la funzione di realizzare il nuovo; il profitto che ne deriva è il vero e proprio profitto dell’intraprendere.

La realizzazione del nuovo è il mestiere che Schumpeter ha visto fare agli imprenditori, ha vissuto in un’epoca di titani del capitalismo, ha visto gli effetti dell’attività dei Rockfeller, Carniege, JP Morgan ecc. e li ha studiati da un punto di vista privilegiato quale era (ed è) l’università di Harvard a Boston. Vale certamente ancora oggi il fatto che per essere imprenditore ci vogliono qualità rare.
Fino a qui la teoria classica di Schumpeter che è stata ripresa da moltitudini di studiosi, ma c’è dell’altro:

Sennonché è facile rendersi conto del fatto che oggi il possesso del capitale, se rende praticamente più facile ottenere e conservare il ruolo d’imprenditore, non è tuttavia essenziale al fine…
La funzione imprenditoriale è qualcosa di personale e non qualcosa che è collegato al possesso di una cosa, com’è tipico della posizione del proprietario fondiario. Se perciò la nostra teoria è giusta, la funzione dell’imprenditore non può, alla lunga, esaurirsi nell’ambito della famiglia, e finisce per essere necessariamente falsa, allora, l’immagine popolare della dinastia industriale che domina da una posizione sicura. E in effetti è un’immagine falsa… i dati finora acquisiti confermano l’impressione espressa dal proverbio “Tre generazioni dalla tuta alla tuta”.
Se il possesso di capitale non è un presupposto per esercitare il ruolo di imprenditore, il fatto stesso di esercitarlo con successo porta tuttavia a possederlo.

Quindi Schumpeter, un mostro sacro della teoria economica e il padre della teoria dell’imprenditore, riteneva che “la funzione dell’imprenditore non può, alla lunga, esaurirsi nell’ambito della famiglia” e, lui in persona, coniava il famoso proverbio delle tre generazioni.
Bene, Schumpeter si sbagliava. Diciamolo meglio: si sbagliava in parte. Negli anni trenta gli unici sistemi basati sulla famiglia erano quello monarchico  o quello fondiario europeo, il capitalismo era rappresentato solo da grandi imprenditori ancora nella prima generazione del loro successo. Schumpeter non aveva potuto vedere come queste qualità rare possono essere trasmesse tra le generazioni: e la novità rispetto a quanto vedeva lo studioso austriaco è proprio la trasmissione delle qualità rare e non la trasmissione del capitale. Come afferma Schumpeter stesso: “La funzione imprenditoriale è qualcosa di personale e non qualcosa che è collegato al possesso di una cosa [il capitale]”.
Quindi per essere imprenditore sono necessarie qualità rare: tipiche della persona e che possono essere favorite e sviluppate e non sono necessarie, anche se utili, risorse finanziarie che sono tipiche delle famiglia e del capitalista.
Ecco cos’è la Famiglia Imprenditoriale: è quell’istituzione in cui si educano i membri ad essere imprenditori e in cui i valori di responsabilità, spirito di iniziativa e generosità sono tenuti in massimo conto.

 

Manager di famiglia

Storie di imprese familiari e manager di successo

Bernardo Bertoldi Fabio Corsico
Luiss University Press

Scheda

Gli autori

è docente di Family Business Strategy presso il Dipartimento di Management dell’Università di Torino e co-fondatore di 3H Partners – entrepreneurial solution, provider con sede a Torino, Londra, Parigi, Roma, Atene. Siede nel CdA e nel collegio sindacale di diverse società quotate e non. È membro del comitato scientifico dell’AIDAF, l’Associazione Italiana delle Aziende Familiari, e del Cambridge Institute for Family Enterprise di Harvard. È Vicepresidente e co-fondatore del Club degli Investitori, primo club di business angel italiano. Ha pubblicato Sergio Marchionne at Chrysler con Harvard Business Publishing. È editorialista de Il Sole 24 Ore.


da dieci anni lavora in un gruppo industriale familiare, come direttore relazioni istituzionali e sviluppo del Gruppo Caltagirone, siede nel CdA di diverse società quotate e non ed è consigliere di fondazioni bancarie e fondazioni non profit. È stato capo della Segreteria del Ministro dell’Economia e delle Finanze, membro del Comitato per l’introduzione dell’Euro e ha lavorato in Enel e in Infostrada. È Consigliere del Centro Studi Americani. È autore di Interessi nazionali e identità italiana (Franco Angeli, 1998) e co-autore insieme a Paolo Messa di Da Frankestein a principe azzurro: le fondazioni bancarie tra passato e futuro (Marsilio, 2012).


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