Alla ricerca del limite perduto. Sulla necessità di recuperare il senso del tempo
25 settembre 2019
Partiamo dall’ABC, anzi solo da A e B, come ricostruiti dal buon vecchio Aristotele, quel filosofo che faceva sorridere generazioni di scolari con l’ingannevolmente ingenuo “A=A” e “B=B”. Che conteneva, andando oltre l’apparenza, una verità profonda, cioè che “A non = B”; e su tale perno si son costruiti oltre due millenni di storia dell’Occidente.
Il principio di identità e di non contraddizione ha espresso il perno in forza del quale si è distinto ciò che era giusto, da ciò che giusto non era; ciò che era bello, da ciò che bello non era; ciò che era vero, da ciò che vero non era.
Si son fronteggiati continuamente per secoli valori e beni, ma, pur essendo spesso entrambi meritevoli di tutela, nell’inevitabile bilanciamento si è privilegiata una scelta, che escludeva l’altra opzione. Nell’Alto medioevo ad es., si oscillò a seconda delle epoche fra personalità e territorialità del diritto, se cioè privilegiare le minoranze (tollerando l’uso del loro diritto) o imporre invece un unico diritto sul territorio (favorendo i rapporti fra tutti i consociati). La società si muoveva all’interno di un mosaico mutevole nei contenuti, sì, ma costante sul piano del metodo nel fissare dei limiti; limiti, che sono nella natura delle cose.
Generazioni di scolari, prim’ancora di sorridere su Aristotele, rimanevano allibiti davanti alla apparente banalità del presocratico Eraclito, il cui Πάντα ρεί (panta rei,tutto scorre) lambiva e, per taluni, addirittura oltrepassava i confini dell’ovvio. Ma sbagliava chi non coglieva i significati profondi. Anche in questo caso con quelle parole si condensava una verità profonda e proficua: il movimento in natura scaturisce da tensione e contrasti.
Nella contemporaneità più recente sembra, invece, tutto in dissolvenza. Si vorrebbe cancellare ogni limite e negare la naturale dialettica fra forze in istintivo contrasto fra loro: quando ogni gesto atletico, invece, dimostra che in natura vige il contrario, cioè quel contrasto: il lanciatore del giavellotto corre per fermarsi e solo fermandosi conferisce un senso al suo movimento; il tennista necessita sempre, pur correndo, di un perno di rotazione per colpire la palla. O, più banalmente, una porta si può aprire se può far perno su un cardine, che la blocca. Il momento meccanico in fisica indica, appunto, la rotazione su un perno.
Eppure, il perno, il contrasto sembrano esser mentalmente obsoleti. Esiste solo un indistinto A=B, all’interno di una parola suadente che promette molto, ma poco di costruttivo offre in concreto: inclusione. Sembra quasi che il centrifugo sia divenuto sinonimo di negatività, mentre solo il centripeto equivalga a positività. Quando, al contrario, è invece nella forza delle cose che esistano punti di resistenza: sembra prevalere, invece, egemonica la ricerca continua ed ossessiva di linee di compromesso.
L’attività umana è una ricerca continua di verità, di nuove dimensioni, di nuovi valori, ma il diritto naturale della contemporaneità finge di cercare la verità attraverso il superamento di punti di resistenza, bensì adagiandosi su qualsivoglia linea di compromesso, purché ciò eviti ogni disagio, purché ciò non alteri una superficiale comodità dello star bene, mentale e fisico.
Il buon Leibniz attribuiva al diritto e alla teologia un duplex principium (Nova methodus…jurisprudentiae, (§ 4/5), Francofurtum ad Moenum 1667): la ratio (una teologia naturale e una giurisprudenza naturale) e la scriptura (comandamenti positivi, cioè posti dagli esseri umani). Quel proficuo dualismo (fra ciò che è naturale e ciò che è posto dall’essere umano) sembra esser abrogato. Si lascia confluire tutto in un’artificiale ratio del piacere: un mondo facile, inclusivo, senza spigoli e punti di resistenza; un mondo ossessivamente allegro, che tutto digerisce, pur di evitare contrasti e contrapposizioni.
Da siffatta impostazione discende la necessità di espellere il senso del Tempo. È più comodo vivere per l’immediato: ciò che è stato non rileva; ciò che sarà non è, quindi scivola nell’irrilevanza. Le iniziative politiche generose valgono per l’effetto-annuncio, cioè per l’immediato: che poi a quelle iniziative non seguano atti conseguenti e concreti, non rileva. L’assenza del Tempo rende più comodo obnubilare ogni riflessione critica e offre l’indubbio vantaggio di dissolvere il principio di responsabilità, che implica invece il rispondere nel futuro di ogni omissione o gesto.
La London school of Economics del dopo-guerra è stata meritoria nell’aver creato le regole del welfare state, ma un involontario effetto di ripercussione ha determinato nei decenni successivi una ‘socializzazione’ della condotta e per cui si sono radicate forme di deresponsabilizzazione nella società contemporanea. Ad es., si è brindato, in Italia, al varo di una legge che impone l’acquisto di seggiolini che suonano nel momento in cui gli adulti escono dall’auto per ricordare la presenza di neonati nel veicolo. Ciò equivale ad affermare che lo Zeitgeist e l’ordinamento legittimano i genitori a dimenticarsi dei figli.
È cosa piacevole assecondare il diritto naturale della contemporaneità: esso si impone in nome di una asserita ineluttabilità e si alimenta di facili ‘pensieri’, funzionali al profitto di Grandi Capitalisti e offre il vantaggio di “pacchetti di riflessione” pre-confezionati, rapidi da assumere come linee-guida, perché privi di una strutturazione dialettica e senza paratie.
Un esempio di facile ‘pensiero’ è offerto dal cd. principio di non discriminazione, quando in natura vige invece il contrario, la differenza fra tutti i soggetti (con quel che ne consegue). A voler veramente applicare in concreto il cd.principio di non discriminazione,ne discenderebbe l’assenza di ogni valutazione e inevitabilmente evapora ogni limite, ogni parametro di valutazione (che inevitabilmente porta a giudizi, che però sarebbero discriminatori).
Il diritto, sin dai tempi del mitico codice dì Hammurabi, era nato fissando limiti, che creavano momenti di libertà. La dimensione giuridica è legata a valutazioni; essa ha sempre favorito e tutelato i comportamenti, che reputava meritevoli di tutela, mentre ha scoraggiato e represso quelli che reputava dannosi. Ma volendosi oggi anteporre a quelle categorie il cd. principio di non discriminazione si dissolve ogni ragionamento, ogni valutazione su ciò che è bello, su ciò che è giusto e si ricorre all’emozione cancellando l’argomentazione.
L’operazione che (per pigrizia e comodità) si sta avallando è culturalmente inerte, ovviamente senza futuro; quindi antistorica. Ogni opzione culturale -che si trasforma poi nella quotidianità delle scelte concrete- presuppone invece una visione d’insieme; visione, che a sua volta implica il dilatare nel Tempo degli effetti delle scelte. Il diritto naturale della contemporaneità ha creato invece un meccanismo di controllo che impone una furiosa avversione verso la Storia, intesa come memoria.
Ma come fare se mancano i perni? Cosa è bello? Se prevale la superficiale rapidità dei social media, diviene “vecchia’ ogni riflessione critica. Come fare se manca il dialogo, l’arte della dialettica, la ‘domanda’ e il suo significato ermeneutico? Hans Georg Gadamer rileva in Platone che il bello (καλόν, kalon) non è semplicemente simmetria ed ordine e che attraverso la bellezza si manifesta il carattere della misura (Wahrheit und Methode (III/3), Tübingen 1960), “la misura è la condizione decisiva della bellezza”. Per cui oggi si è volatilizzato il valore del bello e la funzione anagogica del bello, di quel bello che intesse un rapporto così stretto col bene (αγαθόν, agathon). Quella bellezza che è, a sua volta, così connessa con la verità (αλήθεια, aletheia).
Si è così perso il senso del limite: le generazioni native digitali -con la tolleranza di genitori infantilmente inconsapevoli- si inondano di messaggi ripetitivi per spronare alla tutela dell’ambiente, ignari del Co2 che quella messaggistica determina.
L’assenza del limite -favorita da interessi economici, che spingono per il trash, che favorisce la quantità- porta con sé l’assenza dell’equilibrio. E il diritto naturale della contemporaneità non tollera ponderazioni, al contrario combatte chi cerca “il carattere della misura”, quindi il bello. Chi cerca un equilibrio esprime un’arroganza intollerabile e si estranea dall’ordine naturale, divenendo nemico: chi difende le categorie attacca il pensiero; pertanto, si estranea dalla comunità e diviene quindi nemico, hostis (πολέμιος, polémios). (La vera guerra era solo quella fra Greci e barbari, che per intima natura erano nemici; mentre un popolo al suo interno non può condurre guerre con sé stesso. Platone, Politeia V/XVI distingueva, infatti, fra πόλεμος (guerra) e στάσις (guerra civile), per cui solo chi era fuori della comunità era, appunto, il πολέμιος, il nemico.)
Il lettore che avesse avuto la pazienza di leggere sin qui potrebbe però aver subito (comprensibilmente) un calo di attenzione e iniziare a pensar male dell’autore di queste righe, imputandogli gravi scorrettezze concettuali. Ebbene, per dissipare ogni equivoco, l’autore di queste righe chiarisce di essersi limitato ad osservare le cose, naturali e umane, attraverso gli occhiali della Storia. Quegli occhiali che evidenziano una domanda: come può reggersi una società senza il senso del Tempo?
Infatti, la linea di confine tra A e B sembra disintegrata, quella linea sulla quale era costruita l’antica actio finium regundorum del diritto romano, la delimitazione dei confini fra proprietà terriere:”fin qui è tuo, da qui è mio”; per cui “da un certo punto in poi debbo io assumermi le relative responsabilità, ma oltre quel punto devi tu assumerle”.
Ogni linea confinaria viene oggi vista, invece, come barriera, quindi da abbattere, ma la linea di quell’actio ha creato momenti di libertà. Come le norme in generale hanno creato momenti di libertà. Solo il limite crea uno spazio, altrimenti il tutto è nulla.
E ogni richiamo a Dostoevskij, ai Demoni e al nichilismo appare superfluo…
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