L’importanza della resilienza nella costruzione del team
30 settembre 2019
In una prospettiva di crescita professionale e accademica, come deve muoversi un ricercatore nella scelta di cosa e dove pubblicare? Ovvero, quali scelte deve fare anche al fine di costruire la propria carriera accademica: conviene muoversi sempre nello stesso filone di ricerca o spaziare?
Potrei dare due tipi di risposte. La prima la definirei “strumentale”, nel senso che ogni sistema accademico prevede delle forme di incentivo e disincentivo, cioè le cose che vengono apprezzate, le cose che al contrario non sono gradite, o quelle che possono essere trascurate dalla comunità accademica di riferimento. Anche a livello internazionale in realtà non c’è una “comunione d’intenti” nel definire cosa sia meglio fare nella prima fase della carriera e cosa sia invece opportuno fare nelle fasi più avanzate.
Volgendo lo sguardo al mondo anglosassone, ad esempio, i giovani vengono incoraggiati a sviluppare un tema di ricerca che prende forma dalla tesi di dottorato, che poi viene approfondito successivamente, e soltanto in una fase più matura della carriera, quindi quando già cominciano a intravedere dei percorsi di “tenure” vengono incoraggiati, o hanno la libertà di poter esplorare altri filoni. In termini di risultati della ricerca, nelle prime fasi della carriera, si tende a privilegiare le pubblicazioni di articoli su riviste scientifiche, quindi che hanno come target principale la comunità scientifica, e soltanto nelle fasi più mature di carriera ci si pone il problema di trasferire questa conoscenza attraverso altri schemi divulgativi. In molti contesti, ad esempio, i libri vengono scritti soltanto dagli accademici a fine carriera perché la pubblicazione di paper accademici non è più necessaria e anche perché riescono ad avere una maturità sufficiente per, non dico semplificare, ma rendere più accessibili i concetti che potrebbero risultare poco intelligibili dal mondo esterno alla comunità accademica. Questo per una serie di ragioni che hanno anche a che fare con le basi di conoscenza necessarie per apprezzare alcuni argomenti: parlo di basi filosofiche, di basi sociologiche, di comprensione dei meccanismi complessi dell’economia, e così via.
Mentre, prendendo come riferimento il sistema italiano così come era fino a qualche anno fa, cioè prima dell’entrata in vigore della riforma Gelmini, i giovani venivano incoraggiati – e questo è il percorso che ho fatto io alla fine del dottorato – a trasformare immediatamente la propria tesi di dottorato in una monografia, e quello era il veicolo di accesso alla comunità accademica. In molti sistemi accademici nazionali tende ad essere ancora molto viva l’esigenza di informare la comunità locale della propria attività scientifica attraverso le monografie. Quindi è chiaro che oggi, per quel che riguarda l’Italia, ci si trova davanti ad un sistema ibrido che, guardando al sistema anglosassone, in qualche modo ancora risente di questa legacy del passato.
Però questo è un discorso assolutamente strumentale, legato cioè al comprendere quale sia l’arena competitiva con cui si si vuole confrontare e a regolarsi di conseguenza. Noi incoraggiamo i giovani dottorandi a competere a livello internazionale, e di conseguenza a sviluppare un tema di ricerca da approfondire nell’arco degli studi, e a cominciare ad essere quanto più visibili è possibile nella comunità scientifica; il che vuol dire partire dalle conferenze più prestigiose a livello internazionale, da lì presentare i propri lavori, e poi iniziare a inviare i propri scritti alle riviste ritenute più prestigiose.
Se dovessi rispondere alla medesima domanda in maniera invece più “romantica”, rivedendo nell’accademia qualcosa che possa veramente appassionare le persone, il mio suggerimento è quello di partire da un argomento che interessa, non perché non sia stato esplorato dagli altri, ma perché prima o poi aiuta a migliorare il mondo in cui viviamo; il che non significa necessariamente ruscire a ridurre l’inquinamento ambientale o a curare il cancro, ma può anche significare capire degli aspetti dell’essere umano, sia come singolo che nelle sue forme aggregate, in maniera più profonda rispetto a quanto sia stato fatto in precedenza. È chiaro che non è possibile seguire solo le proprie passioni perché c’è il rischio di incappare in due possibilità: la prima è quella di non riuscire a concretizzare tutto questo potenziale di ricerca, quindi di non trasformarlo mai in pubblicazioni importanti. In secondo luogo se uno studente appare molto curioso, tenderà ad avere un approccio eclettico e collezionerà una serie di temi di ricerca senza padroneggiarne realmente nessuno (in inglese si dice a jack of all trades and a master of none).
Altro suggerimento che non contrasta con l’interpretazione romantica dell’accademia è quello di rimanere sempre “integri”. Io penso che una persona onesta prima o poi riesca a mettere a frutto gli sforzi che fa; è solo questione di tempo. Se affronta un tema interessante e conduce la ricerca in maniera rigorosa, prima o poi questa sua ricerca trova uno sbocco, e quindi riesce a trovare anche soddisfazione dal punto di vista lavorativo. Se invece, si scende a compromessi con la propria integrità, o si ragiona in maniera troppo “strumentale” ovvero provando a giocare con tutti i sistemi di valutazione, secondo me si adotta una strategia molto “miope”, con la quale non si va molto lontano.
Invece, concentrandosi adesso maggiormente sul capitolo della sua monografia che si focalizza sul concetto della “resilienza”, perché è così importante costruire una “cultura della resilienza”?
Sulla resilienza faccio una piccola premessa. Quando ho scritto questo libro con i colleghi, ci siamo accorti che “resilienza” può significare tantissime cose; è un termine che compare in moltissime discipline. In una nota mi sono anche divertito a ricordare che, mentre scrivevamo il libro, persino nel bagnoschiuma che utilizzavo trovai la frase “contribuisce alla resilienza della pelle”. Questo per dire quanto il termine possa essere anche abusato, o comunque usato con un significato molto particolare in molti contesti. La “resilienza” può significare almeno due cose: un aspetto della resilienza è quello di reagire agli shock, e quindi “resistere agli urti”; questa è una interpretazione meccanica della resilienza, quindi in fisica “resilienza” sta a significare che un materiale resiste ad uno shock, assorbendo l’energia che può essere successivamente rilasciata dopo la deformazione iniziale. Poi esiste la resilienza dal punto di vista dell’ecologia: quindi un territorio è considerato “resiliente” se è in grado di assorbire uno shock (un terremoto, un incendio) e di ricreare le condizioni precedenti. Poi esiste un terzo ambito della resilienza, quello psicologico: se si subisce un trauma, si supera il trauma e si impara per la prossima volta, cioè si aggiunge qualcosina. Ora, quel che è importante nella resilienza delle organizzazioni è che i gruppi devono essere in grado di resistere, di assorbire gli shock, e imparare dagli shock stessi. E quindi come l’individuo riesce a sopravvivere ai traumi e “sviluppare anticorpi”, anche le organizzazioni dovrebbero essere in grado di fare la stessa cosa; perché se noi vivessimo in un mondo stabile e prevedibile, non ci sarebbe bisogno di resilienza. Ma poiché viviamo in un mondo che è sempre meno stabile, sempre meno intuibile, allora le organizzazioni devono essere pronte non solo a rimanere in piedi, ma anche a reagire, o meglio, a prepararsi anche per la volta successiva. C’è un processo di apprendimento nella resilienza, ed è quello che noi abbiamo provato a mettere in luce all’interno del testo nel capitolo di cui stiamo discutendo.
Ora, come si fa a diffondere la cultura della resilienza? Non è per nulla facile, perché, paradossalmente, può coesistere un gruppo di persone – costituito da individui resilienti – ma non essere un team resiliente. Un gruppo costituito da persone estremamente resilienti ma non inclini a condividere, non inclini ad aiutarsi, non inclini a cooperare, può non essere resiliente. Come dire: presi individualmente sono resilienti ma messi assieme non è detto che diano vita ad un’organizzazione resiliente. Anzi potrebbe essere un’organizzazione più vulnerabile rispetto alle altre. Allora per diffondere la cultura della resilienza, noi teorizziamo nel libro, e in particolare nel capitolo 6, bisogna assumere non un approccio esclusivo, ma un approccio dialettico.
Nel testo si parla di resilienza organizzativa come sintesi dialettica tra adattamento e proattività: in che cosa consiste l’interazione dinamica tra questi due modelli?
C’è una componente della resilienza che è quella di “re – agire”, e c’è una componente della resilienza che riguarda invece l’“adattarsi”. Se vediamo la figura 6.1 del capitolo 6:
c’è una componente che si chiama “componente adattiva” [adaptive resilience, 1], cioè quella che resiste agli shock, e la “componente reattiva” [reactive resilience, 2], cioè quella che impara dallo shock stesso. Se si prendono come due alternative indipendenti, allora o si segue la via [1], o la [2]. In altre parole se vedo un’onda che arriva, allora o mi preparo a nuotare, che sarebbe la adaptive resilience, oppure a scappare, che sarebbe la reactive resilience. Chi sceglie invece un approccio dialettico, cioè la [organizational resilience, 3], senza scomodare troppo i filosofi, si avvicina a una sintesi hegeliana. In tal modo, la resilienza emerge da due opposti che si alimentano a vicenda; per come l’abbiamo teorizzata noi la “resilienza organizzativa” è questa [3] risultante dialettica rispetto a queste due [1, 2], che sono entrambe indispensabili ma che possono escludersi a vicenda. Se non rifiuto il paradosso, e pertanto accetto che queste due componenti, per quanto opposte, convivano anziché escludersi a vicenda, l’organizzazione entra in questa sorta di circolo virtuoso per cui facendo leva su queste due componenti diventa sempre più resiliente. Questa è ovviamente la teoria… per la pratica dobbiamo far riferimento alla figura 6.3, dove invece sono rappresentate le componenti più tipiche che caratterizzano in concreto la parte adattiva e la parte reattiva della resilienza.
Nella parte adattiva abbiamo il senso dell’intenzione dell’organizzazione – quindi l’obiettivo di medio e lungo periodo – la pianificazione, la protezione, e perfecting, ovvero quello sforzo che tende a migliorare l’esistente, proprio in maniera incrementale. Mentre, l’approccio reattivo prevede cose completamente diverse, ovvero il ripensamento, il rethink dell’organizzazione, il fatto di rispondere inteso come apprendimento, il fatto di mettere insieme – relating – componenti dell’organizzazione, e il resolving inteso come ricerca della soluzione anche se non è nota. E questo sfiora un altro tema e cioè quello della cosiddetta serendipity, ovvero il fatto che se ti poni delle domande rispetto a cosa puoi fare con un oggetto, anche se l’oggetto non sembra immediatamente funzionare, magari hai inventato qualcosa di completamente nuovo. Quindi, questa sintesi, non è soltanto una sintesi “filosofica”, ma è una sintesi concreta, ovvero può essere espressa anche attraverso delle azioni reali, se si pensa a quali possano essere le componenti sia della resilienza adattiva che di quella reattiva. E da manager bisogna essere in grado di attivare entrambe le leve contemporaneamente.
Quindi quali sono le determinanti dell’organizzazione resiliente?
Le determinanti sono tante. Proviamo a descriverle in maniera quanto più sintetica possibile. La prima determinante è comprendere qual è il livello a cui si può esprimere la resilienza. Esistono più livelli: quello individuale, quello di team, quello di organizzazioni (come, ad esempio le imprese, associazioni, enti pubblici), fino ad arrivare ad intere comunità. Quindi ci sono degli studi che affrontano il tema della resilienza di intere popolazioni, se non etnie. E quindi, primo: è necessario comprendere che c’è una concatenazione possibile ma non automatica tra i diversi livelli (abbiamo già detto che individui resilienti non necessariamente generano team resilienti). I meccanismi che attivano queste concatenazioni sono quelli che abbiamo messo nel capitolo 5, e sono i legami che legano l’individuo, i team e le organizzazioni.
Quindi, una componente ad esempio è la cosiddetta “sicurezza psicologica”: cioè se io opero in un ambiente in cui posso esprimermi liberamente, posso esprimere le mie opinioni, posso esplorare, senza incorrere in sanzioni, questa sicurezza psicologica fa sì che gli individui possano creare dei team resilienti con maggiore probabilità. Un’altra componente, passando dai team alle organizzazioni nel loro complesso, è quella dell’improvvisazione. Ora, “improvvisazione” non vuol dire problem solving estemporaneo. “Improvvisazione” vuol dire che io conosco le basi del mestiere e sono in grado di applicarle anche quando non c’è la programmazione, per esempio: un’orchestra di jazz in cui non c’è un direttore ma i musicisti si coordinano tra di loro improvvisando, quindi rispettando alcune regole, ma allo stesso tempo dando sfogo alla loro libertà di eseguire senza che ci sia necessariamente uno spartito.
Poi ci sono altre due componenti, le cosiddette “interazioni positive” ovvero quelle secondo la quale non ci si giudica a vicenda, non si esclude gli altri dai meccanismi decisionali semplicemente perché la pensano diversamente, il rispetto dell’opinione altrui fa sì che le diversità non degenerino in pregiudizi. Poi l’elemento dell’apprendimento che dicevamo prima, che si chiama, in questo contesto, organizational learning, cioè il fatto che se una persona apprende qualcosa, lo condivide con gli altri, i team apprendono collettivamente e, collettivamente, a scalare verso l’alto, le intere organizzazioni possono apprendere.
L’ultimo ingrediente che noi aggiungiamo, questo lo abbiamo scritto nel capitolo 7, è il cosiddetto respectful engagement, cioè rispettare il prossimo a qualsiasi livello. Questa secondo noi è una “componente olografica” – ora, in astrofisica il “principio olografico” prevede che l’intera informazione contenuta in un volume di spazio può essere rappresentata da una teoria che si situa sul bordo dell’area esaminata; come dire, banalizzando, la singola componente di un sistema esprime le caratteristiche che si ritrovano nell’intero sistema. Quindi secondo noi il rispetto nell’interazione con gli altri, nel relazionarsi con gli altri, affinché l’organizzazione possa essere resiliente, dovrebbe avere “connotazioni olografiche”, cioè permeare l’organizzazione a qualsiasi livello di aggregazione. E infatti, le organizzazioni che si sono dimostrate resilienti sono quelle in cui le persone erano maggiormente ascoltate, in grado di proporre soluzioni proattive, e meno sottoposte al giudizio anche laddove le soluzioni proposte non sono poi risultate quelle vincenti.
Il fenomeno della resilienza nel corso degli anni è stato analizzato da differenti angolazioni, tuttavia gli interrogativi in materia sono ancora tanti. In quale direzione dovrebbe guardare a suo parere la ricerca sulla resilienza organizzativa?
Questa è una bella domanda. La maggior parte degli studi sulla resilienza riguardano casi estremi, come ad esempio il crollo delle Torri Gemelle a New York. Questo perché, metodologicamente, comprendere i casi estremi in profondità consente di estrarre delle indicazioni per i casi che risultano essere meno estremi. Il punto è che non esistendo la cosiddetta one best way, quindi il modo perfetto di organizzare, le organizzazioni possono essere testate soltanto a posteriori e non a priori; cioè, noi a priori possiamo dare delle indicazioni, ma se le organizzazioni funzionano o meno, possiamo giudicarlo soltanto a posteriori. Le componenti della resilienza sono molto difficili da misurare in condizioni normali mentre sono molto più visibili nei casi estremi: per esempio, chi possedeva un ufficio nelle Torri Gemelle ed è riuscito in due giorni a ripristinare le operazioni di business in un altro luogo pur non avendo tutti gli strumenti, vuol dire che davvero si è dimostrato resiliente, se non ce l’ha fatta vuol dire che è risultato vulnerabile e cioè che uno shock estremo ha causato conseguenze estreme.
Quindi, una traiettoria di ricerca è quella di riuscire a capire quanto resilienti si possano dimostrare organizzazioni non soggette a casi estremi, cioè non soggette a shock assolutamente traumatici e devastanti, ma invece esposte a shock più “regolari”. Come dire, banalizzo, se io osservo una comunità esposta ad uno tsunami, la velocità con cui questa comunità si ricrea esprime una misura della sua resilienza. Però io, da manager, vorrei anche capire, nel quotidiano, quante persone sanno nuotare e quante persone non sanno nuotare, senza dover aspettare lo tsunami. Queste cose sono molto meno apprezzabili nelle organizzazioni, e quindi una prospettiva di ricerca potrebbe essere questa.
Un’altra prospettiva di ricerca è sicuramente legata a quanto le organizzazioni possono essere resilienti in un mondo “iperconnesso”. “Iperconnesso” vuol dire almeno due cose: in primo luogo che ad oggi, con l’Industry 4.0 le aziende non sono più isolate al loro interno del loro perimetro, ma interagiscono sempre più frequentemente e in maniera sempre più importante con altre aziende. Quindi non si parla più di imprese singole ma di network di imprese, anche a volte senza che questa scelta sia pienamente consapevole da parte delle singole imprese. Ecco, questo espone, per definizione, l’impresa o l’organizzazione, a nuove sfide di resilienza.
Un’altra traiettoria è quella del cosiddetto crowd engagement, cioè il coinvolgimento di soggetti indistinti, raggiungibili attraverso il Web, che modellano pezzi dell’organizzazione. Per esempio, se io produco scarpe da basket, posso chiedere ai miei clienti abituali di aiutarmi a progettarle, o posso esporre la “preview” dei miei prodotti all’opinione del crowd. Questo crea vantaggi, opportunità e potenziali minacce per l’organizzazione; quindi un’altra traiettoria di espansione della resilienza è questa di capire come funzionano le organizzazioni esposte all’interazione con soggetti indistinti, e cioè l’approccio crowd-based.
Per non parlare poi – ma questo lo intravedo soltanto perché non sono cose di cui mi occupo direttamente – della nuova resilienza dell’organizzazione soggetta al giudizio mediatico altrui; cioè, il fatto che esista Internet, che esistano i cosiddetti social media, fa sì che l’organizzazione sia soggetta al giudizio di persone che magari non ne hanno mai acquistato i prodotti, non hanno mai usufruito dei suoi servizi. Quindi, questa può essere boicottata, a torto o a ragione, da soggetti che non hanno mai acquistato un prodotto dell’azienda, ma che semplicemente si svegliano la mattina e decidono di esprimere la propria opinione, poi magari hanno un certo seguito, e l’organizzazione è molto più vulnerabile rispetto a quella che poteva essere dieci anni fa, in cui comunicava soltanto attraverso alcuni canali e le aziende facevano i conti quasi esclusivamente con quello che veniva esplicitato attraverso questi.
Quindi, la resilienza che ha a che fare anche con la sovraesposizione mediatica dell’organizzazione è a mio avviso un’altra traiettoria di possibile esplorazione. In più, e qui chiudo, quella che abbiamo maggiormente delineato all’interno del testo, è capire come questi principi che abbiamo sistematizzato nella nostra ricerca possano essere tradotti poi in progettazione dell’organizzazione, cioè in meccanismi, in procedure, in sistemi di valutazione tali da rendere l’organizzazione nel suo complesso più resiliente.
“Elgar introduction to Theories of Organizational Resilience”, by Luca Giustiniano (with Clegg, Stewart; Cunha, Miguel Pina e; Rego, Arménio). (2018). Cheltenham, UK: Edward Elgar.
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