L’instabilità elettorale come parametro della crisi europea – L’intervista al professor Emanuele
7 ottobre 2019
Professor Emanuele, in base alla sua esperienza quali sono le skill fondamentali che devono appartenere ad un ricercatore che si occupa di sistemi dei partiti politici?
La cosa fondamentale è la flessibilità, sotto due punti di vista. In primo luogo, flessibilità nel senso che bisogna avere una grande apertura internazionale: bisogna cioè riuscire a fare esperienza all’estero, riuscire ad ottenere anche dei periodi brevi di visiting presso altre università che si occupano di temi vicini ai propri. Questo permette non solo di aprirsi ad un network di relazioni con altri docenti, ma anche di poter entrare nel dettaglio del proprio specifico tema di studio: nel nostro caso, per esempio, significa poter studiare da vicino i sistemi partitici del paese in cui ci si reca. In secondo luogo, flessibilità intesa come capacità di adattare il proprio prodotto di ricerca al journal verso cui ci si sta indirizzando, quindi riuscire anche a “modellare” la propria ricerca in base all’obiettivo della comunicazione.
A ciò si aggiunge un’altra skill, fondamentale non solo per un ricercatore di scienza politica ma per chiunque intraprenda la carriera accademica, che è lo studio della teoria, la conoscenza approfondita dei classici della letteratura che costituiscono il naturale punto di partenza per qualsiasi tipo di ricerca. Anche se noi cerchiamo di fare un tipo di ricerca il cui impatto vada anche al di là della scienza politica, il nostro punto di partenza devono essere sempre le basi teoriche dei classici: nello specifico, chi vuole comprendere e studiare i sistemi dei partiti deve cominciare dalle teorie di Giovanni Sartori, di Peter Mair, ecc.
Entrando nel merito del paper, lei e i suoi coautori mostrate come, dopo la fine della guerra fredda, tra i sistemi partitici dei paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’Europa orientale sia sopravvissuta a lungo una divisione piuttosto netta. Può spiegarci in che senso?
I sistemi di partito dell’Europa occidentale e dell’Europa orientale sono stati considerati storicamente come due mondi a parte, che non dialogavano tra loro.
L’Europa occidentale è sempre stata caratterizzata da una grande stabilità dei sistemi di partito. La teoria su cui ci si basa è quella dei cleavage sociali, formulata dai due sociologi Lipset e Rokkan, in base alla quale i partiti nascono a partire da determinate fratture sociali (cleavages) della società moderna. Una volta istituzionalizzati, questi sistemi di partiti tendono a rimanere stabili, perché ogni partito è legato ad uno specifico gruppo sociale di elettori, e finché quel determinato gruppo sociale ha un senso, ha un ruolo all’interno della società, continuerà a votare quello specifico partito: quindi ad una stabilità dei gruppi sociali corrisponderà una stabilità dei partiti.
Il periodo tra il 1945 e il 1990, che in Europa centrale è caratterizzato da grande stabilità elettorale, in Europa orientale invece da sistemi autoritari, quindi dalla mancanza di quel tipo di esperienza democratica che ha strutturato i sistemi partitici occidentali. Dopo la caduta del Muro, la democrazia ritorna in Europa orientale in modo repentino: se vogliamo, in un modo che non era stato adeguatamente preparato a livello di relazione tra la massa, cioè il corpo elettorale, e le élite politiche. Per questo, da subito la caratteristica dei sistemi partitici dell’Europa orientale è stata l’instabilità: in mancanza di legami strutturati tra gruppi sociali ed élite politiche, di elezione in elezione il cambiamento delle élite politiche andava di pari passo con il cambiamento delle preferenze elettorali dei cittadini.
Questo era lo status quo fino all’impatto della crisi economica in Europa occidentale: come spieghiamo nel paper, essa ha prodotto un’accelerazione del processo di convergenza tra le due regioni, che ha portato in qualche modo l’Europa occidentale a diventare sempre più simile all’Europa orientale. Ciò che sorprende è che questo risultato empirico è l’opposto di quello che una lunga tradizione di ricerca aveva profetizzato, vale a dire un adeguamento dell’Europa orientale ai canoni dell’Europa occidentale. Si è sempre ritenuto, infatti, che i paesi dell’Europa orientale tendessero ad essere più instabili perché la democrazia era di recente formazione e quindi le regole del gioco dovevano essere ancora introiettate dagli attori politici (sia dai cittadini sia dalle élite politiche), ma che con il tempo si sarebbe verificato un processo di istituzionalizzazione che avrebbe reso i paesi dell’Europa orientale sempre più stabili, come quelli dell’Europa occidentale. Quello che invece si sta verificando è sì un processo di convergenza, ma nel verso opposto rispetto a quello che la teoria prevedeva: è cioè l’Europa occidentale che sta diventando sempre più instabile, avvicinandosi ai canoni dell’Europa orientale.
Ha parlato di “convergenza”: può spiegarci meglio questo concetto?
Alla base del concetto di convergenza c’è quello di stabilità e instabilità elettorale, che si manifesta attraverso la variabile della volatilità elettorale, che è una misura che quantifica il cambiamento elettorale a livello aggregato, la percentuale di elettori che hanno cambiato voto tra due elezioni successive: si avrà una volatilità elettorale dello 0% quando in due elezioni consecutive i partiti ottengono esattamente le stesse percentuali di voto; una volatilità del 100% vorrebbe dire che in due elezioni consecutive ci sono due sistemi di partiti totalmente diversi. Quindi quanto più c’è stato un cambiamento elettorale aggregato tra due elezioni successive, cioè quanto più i cittadini hanno cambiato voto, tanto più si registrerà un livello alto di volatilità. E quanto più è alta la volatilità, tanto più il sistema è instabile.
Quando parliamo di processo di convergenza, intendiamo una convergenza dei livelli di volatilità elettorale. In passato l’Europa occidentale era tendenzialmente molto stabile, con un livello di volatilità elettorale che si aggirava intorno al 10%, un livello considerato abbastanza basso; in Europa orientale si registravano invece livelli di volatilità costantemente superiori al 20%, un livello che Peter Mair considera già molto alto. Tra il 1990 e il 2016, che è l’ultimo anno preso in considerazione dalla nostra ricerca, si è verificato un processo di convergenza durante il quale i livelli di volatilità tra le due regioni si sono avvicinati: c’è stato un leggero calo della volatilità in Europa orientale, a fronte di un massiccio incremento della volatilità nell’Europa occidentale. Quindi al punto di arrivo, sostanzialmente, che è quello degli ultimi anni dopo l’impatto della crisi economica, le due regioni sono indifferenti da un punto di vista statistico, non c’è una significatività statistica che permette di distinguere a livello di volatilità elettorale un paese dell’Europa occidentale da un paese dell’Europa orientale. L’Europa orientale rimane complessivamente “un po’ più volatile” dell’Europa occidentale, ma a livello statistico questa differenza si è esaurita: il processo di convergenza si è realizzato, ma al suo termine l’intera Europa risulta nel complesso più instabile rispetto a come era 10-15 anni fa.
Questo risultato presenta ovviamente un interesse dal punto di vista empirico immediato. A nostro avviso però ha una rilevanza importante soprattutto dal punto di vista della tenuta democratica, vale a dire delle conseguenze che questa convergenza avrà sul processo democratico. L’instabilità elettorale porta con sé infatti delle conseguenze negative dal punto di vista della fiducia che i cittadini hanno nei confronti della democrazia, dei partiti politici, del processo di accountability (cioè il processo di responsabilità che lega gli elettori agli eletti): tutti questi elementi sono stati già studiati in relazione ad altre regioni del mondo, soprattutto l’America latina; in Europa occidentale però li disconoscevamo, proprio perché eravamo abituati ad una situazione di forte stabilità. Pertanto, il nostro paper può anche aprire un nuovo filone di ricerca – su cui in realtà sto già lavorando – riguardo quali siano le effettive conseguenze di questo processo di cosiddetta “deistituzionalizzazione”, cioè di “progressivo aumento dell’instabilità elettorale” nell’Europa occidentale.
Siamo davanti ad un modello in cui un partito prevale su un altro o siamo di fronte ad una vera e propria scomparsa e disintegrazione di uno rispetto all’altro?
In realtà né l’una e né l’altra: non c’è un modello prevalente, perché comunque anche all’interno delle due regioni si registrano delle eterogeneità. Siamo però di fronte a un generale processo di deistituzionalizzazione, il che significa un aumento di imprevedibilità dei sistemi partitici. I sistemi partitici non sono altro che “aggregati” che vengono a costituirsi a seconda delle interazioni e delle relazioni tra i partiti politici. Ciò nasce nel momento in cui queste interazioni diventano imprevedibili – perché ci sono continuamente nuovi partiti che emergono, vecchi partiti che muoiono, e dunque, rilevanti scambi di voti tra partiti. Questa situazione è comunque un modello compatibile con la democrazia: in Europa orientale è sempre stato così. Ovviamente, però, è un modello compatibile con una democrazia di scarsa qualità, perché un’alta imprevedibilità implica tendenzialmente cittadini meno consapevoli di quale sia l’offerta politica che hanno di fronte al momento del voto, e quindi anche partiti politici ed élite politiche meno responsabili, dato che non dovranno più rendere conto del loro operato di fronte agli elettori. Quindi, in sintesi, la democrazia non è messa in pericolo dalla deistituzionalizzazione, ma sicuramente peggiora nel suo livello di qualità.
Stiamo assistendo all’attuale ritorno dei nazionalismi e all’emersione del cosiddetto sovranismo: quanto questo processo di deistituzionalizzazione ne è causa e quanto ne è invece un sintomo e una conseguenza?
In questo caso dobbiamo distinguere tra due processi paralleli. Da una parte abbiamo i nazionalismi e i populismi di partiti già esistenti, cioè partiti che già erano presenti nel quadro politico e che si sono poi orientati ideologicamente verso il nazionalismo e il populismo, cioè che hanno avuto uno shift ideologico verso una radicalizzazione del sistema. Dall’altra c’è il fatto che ci sono nuovi partiti che emergono e vecchi partiti che muoiono, cosa che naturalmente accelera il processo di cambiamento delle interazioni. Il fatto che il sistema politico si vada a riorganizzare comporta una crescita di imprevedibilità per il sistema. Per non parlare di quando ad emergere e diventare sempre più rilevanti sono nuovi partiti particolarmente polarizzati sul nazionalismo, sul sovranismo, sul populismo: è il caso dell’Italia con la nascita nel 2013 del Movimento 5 Stelle, o della Spagna con Podemos, ma potremmo citarne molti altri. Anche questo porta ad uno stress del sistema, perché gli attori politici devono riadeguarsi e riadattare le proprie interazioni (dalle interazioni all’interno del Parlamento tra maggioranza e opposizione, alle interazioni elettorali relative ai processi coalizionali, e così via), per far fronte all’emergere di questi nuovi soggetti.
Quindi, da una parte questi processi sono chiaramente una causa della deistituzionalizzazione, dall’altra la deistituzionalizzazione non fa che accelerare questi processi, perché dà nuove opportunità politiche agli imprenditori politici che vogliano formare nuovi partiti, dal momento che in una situazione di totale instabilità chiunque può avere una possibilità. Indice di questa instabilità è anche solo la volatilità delle intenzioni di voto, non solo del successivo che cambia in modo sostanziale con una frequenza altissima. Si pensi a quanti punti ha perso il M5S dalle elezioni politiche ad oggi e a quanti ne ha guadagnati la Lega: è passato poco più di un anno, siamo in teoria in una situazione di potenziale stabilità, perché abbiamo un governo, un’opposizione, ecc. Eppure, confrontando la situazione attuale con quella al momento delle elezioni politiche, sembra di essere davanti a due sistemi politici diversi, tanto ormai si è innescata questa dinamica per cui le preferenze dell’elettorato sono estremamente fluide.
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