Lesbo: un disastro umanitario ieri come oggi. Cronache del 2015
11 marzo 2020
Nel settembre del 2015 mi recai a Lesbo. Su una spiaggia, due medici curavano i piedi di un profugo che era appena saltato da una barca. Entrambi olandesi, non sopportavano più di vedere ogni giorno le immagini dei profughi al telegiornale e avevano deciso di dedicare i loro giorni di vacanza ad aiutarli. “Quando arrivano sono soprattutto stanchi e impauriti” disse il dottor Harm Knol di Dedemsvaart. Le sue cure consistevano più che altro nel calmare la gente. “Vada un attimo a sedersi sotto quell’albero e riprenda fiato” diceva alle persone. “Qui è al sicuro.” Sul sentiero sterrato che passa sopra le spiagge tra Eftalou e Skala Sikaminias, arrivavano a piedi decine di nuovi profughi e a settanta metri di distanza da Harm Knol stava attraccando ancora un altro gommone strapieno proveniente dalla Turchia. Tra grida di gioia e pianti, i passeggeri si strapparono di dosso i giubbotti di salvataggio e li gettarono in mare.
Ormai, oltre a una crisi umanitaria, Lesbo si trovava ad affrontare anche un disastro ambientale. Il suo mare e le sue spiagge erano ricoperti da giubbotti di salvataggio buttati via e da gommoni bucati. “Non si possono piantare in asso e basta. Non affrontano certo la traversata perché qui le lasagne sono più buone” disse un soccorritore. Venti o trenta volontari provenienti da Islanda, Norvegia, Olanda, Israele e Regno Unito accoglievano i gommoni dalle spiagge nella zona di Molyvos, aiutavano la gente a sbarcare sana e salva, e distribuivano acqua e banane. Più in là sulla spiaggia una signora belga distribuiva a madri siriane e afgane abitini asciutti per neonati, spediti a Lesbo da madri solidali dell’Olanda e della Danimarca. Un turista tedesco sollevò una cassetta di mele dal bagagliaio della sua auto a noleggio. Delle bolle di sapone si libravano con la calda brezza marina. Due pagliacci donna di una ONG che si chiamava Global Clown erano arrivate dall’Olanda su furgoncini carichi di bolle di sapone, palloncini e cappellini da festa. Giocavano insieme ai bambini profughi sulla spiaggia a uno, due, tre, stella e a rubabandiera. I piccoli, che erano appena stati trasportati a riva, ridevano estasiati. I genitori guardavano riconoscenti da sotto l’albero e mangiavano qualche panino. Si cercava di dare un passaggio a tutti i profughi in stampelle e carrozzella, ai ciechi, agli anziani, alle donne agli ultimi mesi di gravidanza e ai malati, ma ogni giorno c’era comunque una processione di 2000 o 3000 persone che percorrevano i cinque chilometri dalla spiaggia di Eftalou alla minuscola cittadina portuale di Molyvos, con settecento abitanti. “In questa fase assomiglia ancora un po’ a una manifestazione sportiva” disse Thom. Si era trasferito qualche anno prima dall’Olanda a Molyvos e gestiva una pensione. A bordo della sua jeep superammo lentamente i profughi appena arrivati, che ci salutavano con la mano. Portavano i bambini sulle spalle, l’acqua di mare colava dai loro zaini. Un gruppo di adolescenti siriani che camminavano insieme gridarono esultanti: “Dov’è il McDonald’s?”. “Dopo la calorosa accoglienza sulla spiaggia, credono di aver raggiunto la terra promessa. Non dico mai cosa li aspetta da adesso in poi. Lascio che si godano il momento” disse Thom.
La temperatura toccava i trentacinque gradi. Ogni posticino nella stretta striscia d’ombra degli ulivi lungo il marciapiede era occupato da profughi. Le madri facevano aria ai loro bambini oppressi dal caldo. Giovani e vecchi, neonati e bambini erano seduti e stesi gli uni in mezzo agli altri sopra coperte termiche in alluminio e pezzi di cartone di scarto, tra sacchetti di Doritos, lattine di sardine e bottiglie di plastica. Vestiti e scarpe erano stesi ad asciugare alla recinzione di un uliveto. Le persone in attesa stavano già raggiungendo il migliaio e dalla strada costiera si vedevano altri dieci nuovi gommoni dirigersi verso la spiaggia. Il proprietario del noleggio di macchine accanto alla fermata dell’autobus quel mattino non ne poteva più: puntò un tubo dell’acqua sui profughi e spruzzandoli li fece uscire dal suo praticello costringendoli a tornare sul selciato bollente. La fermata dell’autobus sulla strada principale di Molyvos era il punto di ritrovo. I profughi davano per scontato che da lì partisse un autobus per Mytilini, la capitale di Lesbo, dove dovevano farsi registrare dalla polizia per poter proseguire il viaggio verso la terraferma. In effetti, due volte al giorno un autobus di linea passava, ma i profughi non potevano salire a bordo. “Perché siete illegali” sentii Hannelouise Kissow, un medico di Copenaghen, spiegare a un gruppo di rifugiati. “Se l’autista vi trasporta, diventa un trafficante di persone e lo arrestano.” Anche la bionda Hannelouise si era presa dei giorni liberi ed era venuta a Lesbo per dare una mano. Ma soccorrere le persone sulla strada pubblica non era permesso dalla polizia. L’avrebbero arrestata. Così, per rendersi comunque utile, andava avanti e indietro tra i profughi con la borsa di vestiti usati per bambini che si era portata da Copenaghen. “Taxi?” domandò un profugo. “Non si può prendere neanche quello” rispose Kissow. “Dov’è Mytilini?” “Da quella parte, a settanta chilometri.” “Ho dei bambini piccoli, non possono camminare per settanta chilometri. Dove trovo un albergo?” chiese il profugo. “Non può andare in albergo. Sono ordini del governo greco” lo informò Kissow. “Ma ho i soldi!” “Non importa.” “Dove dormono allora i miei bambini?”
“Sotto un ulivo, sul marciapiede, dove trova un posto” fu la risposta della donna. Per quel giorno aveva chiuso. Dal suo punto di vista, aveva già dovuto mortificare migliaia di persone con la notizia che non potevano fare nulla a parte stare lì seduti sul marciapiede, con i loro bambini e gli anziani. E non era per niente felice di essere lei quella che doveva spiegare tutto. Non c’era neanche un poliziotto o un funzionario. “L’altro giorno un paio di uomini di Molyvos si sono messi a gridarmi che dovevo portare via quei profughi da qui, via, via dal loro marciapiede, mi facevano segno con le mani. E dove allora? E perché mai devo essere io a farlo? Neanche fossero miei, i profughi.” Lasciò la sua borsa di abiti per bambini tra due famiglie e si allontanò a piedi verso la strada del villaggio. Io rimasi alla fermata, dove quel giorno non si era visto nessun autobus. Per mezz’ora diventai, da sola, l’ingresso per l’Europa. “Atene?” chiese un afgano che era appena arrivato a piedi da Eftalou con la sua famiglia. Non aveva idea di dove si trovassero. Aprii la cartina che mi avevano dato all’ufficio turistico. “Lei si trova qui.” Indicai Molyvos. “Deve andare lì.” Indicai Mytilini sull’altro lato dell’isola. “E poi con la barca fino ad Atene.” Intorno a me era tutto uno spingersi a vicenda, tra uomini con il sale marino secco sulla barba e alle radici dei capelli. “Hungary?” chiese uno. “Toilet?” “Hospital?” “Registration?” Anche un paio di donne in mountain-bike, con il casco, le divise di lycra rosa shocking e pacchi da sei di bottiglie d’acqua da un litro e mezzo sul manubrio, pensarono che fossi la coordinatrice degli aiuti umanitari europei. Altri possibili candidati non ce n’erano. Deposero ai miei piedi le bottiglie e dissero che potevo dare l’acqua ai profughi che ne avevano più bisogno. Io regalai ai rifugiati la mia cartina, augurai buona fortuna a quelli che mi circondavano e mi liberai dall’ammasso di gente che spingeva. A cento metri dalla fermata dell’autobus, superata la prima curva, c’erano negozi di souvenir, bar che facevano succhi freschi, flaconi di crema solare con il fattore di protezione desiderato, cartoline e salvagenti.

Gente di nessuno
Rifugiati e migranti in Europa dal 1938 ad oggi
Luiss University Press
Prefazione di Francesca Mannocchi
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