Nuove emergenze, vecchi problemi: ecco perché la tenuta economica degli Stati debitori non è solo un fatto contabile
30 marzo 2020
In un saggio del 1932, Carl Schmitt ha teorizzato l’avvio, al termine della prima guerra mondiale, di un’epoca di “imperialismo economico”, con un conseguente cambio di paradigma. Alle contrapposizioni dei secoli precedenti, fondate sul fattore religioso (cristiano e non cristiano) o culturale (civilizzato e non civilizzato), sarebbe succeduto un paradigma soltanto in apparenza meno “violento”, costruito sulla divaricazione tra Stati creditori e Stati debitori. All’epoca, la Germania era tra gli Stati debitori, “strozzata” dai debiti da pagare agli Stati vincitori della guerra. Questi ultimi furono inflessibili e sappiamo bene cosa accadde: il costituzionalismo di Weimar svanì e nel cuore d’Europa si alimentò l’incendio che divampò nella seconda guerra mondiale.
Qualche decennio prima, Max Weber aveva mirabilmente spiegato il nesso tra calvinismo e capitalismo, per cui lo “spirito” del capitalismo, poggiante sul reinvestimento dei frutti della propria attività in nuove iniziative economiche, trova un humus culturale ideale nell’etica protestante. Questa, da un lato, rinviene nel successo terreno l’indice dell’approvazione divina e, dall’altro, per tale ragione ripudia alla radice le nozioni cattoliche del perdono e della remissione dai peccati.
Se leggiamo insieme le due tesi, emerge un quadro concettuale che consente forse di percepire meglio cosa stia accadendo, in questi giorni, nel Consiglio UE.
La divisione è tra le posizioni ragionieristiche degli Stati creditori dell’area protestante (i paesi del Nord Europa) e quelle solidaristiche degli Stati debitori dell’area cattolica (i paesi mediterranei). Nel recente passato, la Grecia ha pagato un pesante scotto all’intransigenza degli Stati creditori. Al fondo ci sono i tre nodi irrisolti dell’Unione Europea: il metodo intergovernativo (le decisioni adottate a maggioranza dagli Stati nazionali nel Consiglio UE) è tuttora prevalente sul metodo comunitario (le decisioni prese direttamente dalle istituzioni europee, Commissione in primis); le competenze di maggior rilievo dell’UE sono economico-finanziarie, mentre quelle relative alle politiche sociali sono per lo più rimesse agli Stati nazionali; a seguito della mancata approvazione referendaria della Costituzione europea nel 2004-2005, i cittadini europei faticano a rinvenire il fondamento di un patto comune nei Trattati consolidati.
L’esito del Consiglio UE del 27 marzo ci dice che, nonostante la situazione di eccezionale emergenza, i retaggi del passato continuano a guidare le decisioni degli Stati nazionali e ne condizionano gli schieramenti. Gli Stati del Nord non vogliono condividere i rischi dei debiti degli Stati mediterranei, ma così facendo l’intero continente potrebbe andare incontro a deflagranti conseguenze economiche e sociali. Inoltre, sul piano delle politiche del welfare si dimostra, pure nell’emergenza, l’incapacità di costruire una linea di azione comune europea: gli Stati hanno proceduto egoisticamente e in ordine sparso.
Opportunamente il Presidente Mattarella ha richiamato le istituzioni UE a intervenire in modo deciso e unito prima che sia troppo tardi. La drammatica emergenza Covid19 potrebbe accelerare il processo di disarticolazione del tessuto ordinamentale europeo. Le rigidità contabilistiche, l’opportunismo economico di breve periodo, le posizioni egoistiche per blocchi di aree geografiche, il tradimento dei principi di coesione sociale e di solidarietà (contemplati tra quelli fondanti dell’UE) minano in profondità le basi della costruzione europea.
Gli Stati dell’area mitteleuropea dovrebbero ben ricordare che la grave crisi economica che attanagliò la Repubblica di Weimar spalancò le porte alla presa del potere di Hitler, nel gennaio del 1933, e alla devastazione del continente da parte del totalitarismo nazista.
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