Dumbarton Oaks e il futuro ordine politico europeo

31 marzo 2020
Editoriale Europe
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È una guerra. Una guerra sanitaria contro un nemico (il virus Covid-19) “invisibile e inafferrabile”, come l’ha definito il presidente francese Emmanuel Macron. Prima o poi, verrà vinto. Ma quando arriverà quel momento, non sarà più come prima. Con la guerra ancora in corso, tra agosto e ottobre del 1944, a Dumbarton Oaks (un piccolo villaggio vicino a Washington D.C.), delegazioni delle quattro potenze alleate contro l’Asse (Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito e Cina) si riunirono per definire l’ordine politico mondiale da costruire nel dopo-guerra. La discussione gettò le basi per la Conferenza di San Francisco (dell’aprile successivo) che dette vita all’Organizzazione delle nazioni unite (Onu).

Dumbarton Oaks faceva seguito alla Conferenza tenuta a Bretton Woods (una cittadina del New Hampshire) nel luglio precedente, dove si gettarono le basi del futuro ordine economico internazionale (con la decisione di dare vita al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale). Furono conferenze molto combattute. A Dumbarton Oaks lo scontro fu tra chi sosteneva la necessità di ritornare al vecchio sistema nazionale-imperiale, chi voleva congelare il nascente bipolarismo e chi proponeva di creare un ordine internazionale multilaterale. Vinse quest’ultima strategia, che molti (allora) ritenevano irrealistica. Anzi utopistica. Oggi siamo di fronte ad una discussione analoga. Mentre la Banca centrale europea e le istituzioni europee si sono finalmente decise a fare “tutto ciò che è necessario e anche di più” per neutralizzare il disastro economico generato dal virus, anche noi stiamo discutendo sull’ordine politico europeo del dopo-virus.

Tre strategie sono in campo. La prima è quella nazionalista. Per i suoi sostenitori, il Covid-19 è l’ultimo esempio dei guasti prodotti dalla globalizzazione ed europeizzazione. Per loro, occorre chiudere la lunga fase postbellica dell’apertura dei mercati e della costruzione delle istituzioni politiche dell’interdipendenza, “affinché ognuno riporti a casa (per dirla con Dominic Cummings, il consigliere personale del premier britannico) la propria sovranità”. È, infatti, l’Inghilterra di Boris Johnson la capofila di tale strategia. Ma il suo modello di riferimento è l’Amministrazione di Donald Trump che, nella sua ossessione nazionalista, ha rifiutato persino l’aiuto della Organizzazione mondiale della sanità per combattere il Covid-19, in nome di “terapie che debbono essere esclusivamente americane”.

Per i sostenitori di tale strategia, si tratta di ritornare ad un’Europa degli stati (o meglio, per dirla con Marine Le Pen, delle Patrie), ad un sistema di unità territoriali distinte, con la loro autorità ‘westfaliana’ e la loro specifica identità nazionale. Un’identità, quest’ultima, ritenuta esclusiva ed omogenea, in quanto motivata da radici uniche per ogni Paese. Si tratta di una visione a-storica. Le identità nazionali non sono mai esistite in natura, bensì sono il risultato di una costruzione artificiale non priva di dolorose forzature autoritarie (come hanno mostrato, tra gli altri, Benedict Anderson e Anthony D. King).

Allo stesso tempo, l’idea che lo stato territoriale possa ricostituirsi come struttura distinta da altri stati territoriali è l’espressione di una visione ideologica, persistente nella cultura nazionalista e conservatrice. L’interdipendenza tra gli stati e le loro politiche, in particolare nel continente europeo, è un tratto sistemico e non già volontaristico. La re-introduzione delle frontiere o la chiusura dei porti non servono per bloccare la circolazione dei virus, per arrestare i flussi migratori, per neutralizzare i disordini finanziari o per proteggerci dalle crisi ambientali.

La seconda strategia è quella intergovernativa. Essa propone di rafforzare e razionalizzare l’ordine politico ed economico esistente. Anche per i sostenitori di questa strategia, lo stato nazionale è il pilastro di qualsiasi futuro ordine politico. Tuttavia, esso può esaltare la sua funzione storica e la sua legittimazione politica solamente coordinandosi con gli altri stati nazionali. Per loro, come per Alan Milward, l’integrazione europea fu avviata per salvare lo stato nazionale, non già per renderlo obsoleto. I sostenitori di tale strategia sono sia politici che tecnici.

Tra i politici, ci sono le attuali leadership della Germania e dei Paesi della coalizione anseatica, ma anche quegli attori comunitari che ritengono che il loro compito consista (per citare un recente comunicato della Commissione europea) “nel favorire il coordinamento tra i governi nazionali”. Tra i tecnici, c’è buona parte delle tecnocrazie funzionaliste europee, il cui ruolo è stato magnificato dalla necessità di trovare soluzioni sofisticate ai complessi problemi sollevati dal coordinamento intergovernativo.

Per questa strategia, il nuovo ordine politico europeo dovrà avere le caratteristiche di un’unione intergovernativa, in cui i governi nazionali (gli unici dotati di una legittimazione politica) debbono sedere al posto di guida. L’esperienza ha dimostrato, però, che tale strategia non è in grado di risolvere due cruciali dilemmi politici del coordinamento intergovernativo. Quest’ultimo genera logiche gerarchiche tra governi nazionali, come abbiamo visto durante la crisi dell’euro, e produce decisioni prive di legittimazione intrinseca. I governi nazionali, infatti, sono singolarmente legittimi, ma la loro legittimità non si trasferisce sulla decisione collegiale, che nessuno (neppure il Parlamento europeo) può sanzionare. L’unione intergovernativa funziona solamente sulla base di un disciplinamento regolativo dei suoi membri, disciplinamento che è destinato a generare l’implosione del coordinamento stesso.

Entrambi (i nazionalisti e gli intergovernativi) hanno una visione univoca della sovranità. Essa appartiene esclusivamente allo stato nazionale, che deve gestirla autonomamente (per i primi) o in maniera coordinata con gli altri stati nazionali (per i secondi). Tuttavia, la sovranità, sul piano empirico, può essere spacchettata tra policies che hanno un carattere sovra-statale e policies che possono rimanere sotto il controllo dei singoli stati.

In questa direzione vanno le numerose proposte avanzate in questi giorni. Basti pensare a quella di Mario Monti e Guido Tabellini oltre che di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio affinché l’Eurozona si doti di Eurobond per fare fronte alla sfida del Covid-19. Oppure ai numerosi appelli sottoscritti da centinaia di studiosi (come quello promosso da Aidan Regan sul Financial Times o da Roberto Castaldi e Daniel Innenarity in rete) affinché l’Eurozona si doti di risorse autonome per perseguire una sua politica fiscale capace di contrastare, insieme a quella degli stati, gli effetti del Covid-19. In questa direzione vanno le proposte avanzate dai governi francese, italiano e spagnolo per dotare l’Eurozona di risorse autonome da utilizzare in funzione anticiclica o per fronteggiare emergenze drammatiche come la diffusione del Covid-19. Queste proposte identificano, seppure in forme diverse, la strategia di costruire un’unione sovranazionale, distinta dai suoi stati membri e non sostitutiva delle loro prerogative. Qui, l’obiettivo è quello di costruire un ordine politico europeo basato sulla distinzione tra la sovranità degli stati e quella dell’unione sovranazionale. La sovranità non è un gioco a somma zero, in virtù del quale o la si possiede interamente o non la possiede affatto.

Insomma, anche in Europa c’è un dibattito in corso per definire l’ordine politico ed economico del dopo Covid-19, un dibattito che dovrebbe trasformare la Conferenza sul Futuro dell’Europa (che verrà inaugurata il 9 maggio prossimo e durerà fino al primo semestre del 2022) nell’occasione per far fare un salto federale al progetto di integrazione. Così come a Dumbarton Oaks venne pensato un mondo ritenuto fino a quel momento impensabile, anche oggi si può e si deve pensare ad un’Europa che non si è ancora pensata. Ricordandoci che gli ostacoli all’impensabile sono spesso nella nostra testa, prima ancora che nella realtà.

 

Questo articolo è precedentemente apparso su Il Sole 24 Ore del 22 marzo 2020. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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