Orbán e il virus che alimenta le democrazie illiberali
8 aprile 2020
Sono trascorsi pochi giorni da quando l’Assemblea nazionale ungherese, con la legge cardinale del 30 marzo, ha ratificato lo «stato di pericolo estremo» e ha conferito al premier Viktor Orbán pieni poteri, senza vincolo temporale, per combattere l’emergenza del Covid19. Le istituzioni magiare si sono subito messe al lavoro, adottando un atto normativo per contrastare la diffusione del virus: il divieto di cambio di sesso per le persone transgender! L’ennesima misura – oltre che ultronea e sviante rispetto all’emergenza in atto – gravemente lesiva del principio di eguaglianza formale e dei diritti fondamentali individuali.
Le vicende ungheresi delle ultime settimane costituiscono l’ulteriore dimostrazione del repentino affermarsi di democrazie illiberali nel cuore dell’Unione Europea: Stati che si avvalgono di cospicui finanziamenti continentali, ma che diffondono già da alcuni anni un virus – quello del nazionalismo, della discriminazione, della lesione dei diritti umani – che rischia pericolosamente di alimentare focolai in altri paesi europei. L’ossimoro della democrazia illiberale si pone in aperta opposizione rispetto alla cultura liberale che ha connotato la nascita e lo sviluppo dell’ordinamento europeo, fondato sulla rule of law.
È vero che lo «stato di pericolo estremo», proclamato a metà marzo dal governo magiaro ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, ha di fatto registrato la concretezza della situazione calamitosa: quasi tutti i paesi del globo hanno dichiarato lo stato di emergenza sanitaria. La differenza, nel caso ungherese, è data da due elementi: l’organo costituzionale deputato a revocare lo stato di emergenza e il limite temporale dello stesso. Lo «stato di pericolo estremo» può essere deciso esclusivamente dall’esecutivo e soltanto quest’ultimo può revocarlo: in tale contesto, il Parlamento è confinato a un ruolo marginale. L’unico limite posto dall’art. 53 della Costituzione è quello temporale, poiché esso fissa in quindici giorni la validità dei decreti adottati dal governo per affrontare il pericolo estremo. Ma tale vincolo temporale è venuto meno grazie alla legge cardinale del 30 marzo, con la quale l’Assemblea nazionale, in seno alla quale il partito Fidesz gode di un’ampia maggioranza, ha autorizzato il governo a estendere la durata in vigore dei decreti senza fissare alcun limite di tempo (l’opposizione aveva chiesto la previsione di un termine di novanta giorni). Ne deriva che lo «stato di pericolo estremo» non interviene quale parentesi circoscritta e preventivamente perimetrata (in Italia, ad esempio, la durata dello stato di emergenza è prevista, al massimo, sino al prossimo 31 luglio). La conseguenza è che l’eccezione potrebbe divenire regola e trasformarsi in dittatura.
La rottura ungherese dello Stato di diritto è prolungata. L’assunzione di pieni poteri da parte di Orbán rappresenta soltanto l’evento apicale di una graduale e costante assunzione di atti illiberali, emessi successivamente alla riforma costituzionale del 2011. I più gravi tra questi sono stati diretti a minare l’indipendenza della magistratura, la libertà di informazione, la libertà dell’insegnamento e della ricerca scientifica e sono stati oggetto di registrazione attenta da parte della Commissione di Venezia e di posizioni ferme, seppur non sempre efficaci, da parte delle istituzioni europee. Le recenti modifiche apportate al codice penale magiaro da parte della legge cardinale del 30 marzo scorso, volte a colpire in modo sproporzionato soprattutto la libertà di informazione e di stampa, costituiscono soltanto l’ultimo esempio di atti restrittivi delle libertà individuali.
Anche sotto tale versante, l’Unione Europea è chiamata, in questo difficile momento, ad affrontare una prova decisiva per il suo futuro. Il crinale opposto su cui le istituzioni europee saranno giudicate è quello della leva finanziaria e della solidarietà nei riguardi degli Stati debitori. Ma non è meno significativo quel che deciderà di fare la Commissione UE in relazione alla difesa della rule of law europea.
L’ordinamento europeo, lo affermano i Trattati consolidati, è fondato sui principi dello Stato liberale di diritto e del costituzionalismo democratico, per come si è sviluppato nel corso degli ultimi tre quarti di secolo. La difesa della rule of law europea poggia sulle procedure dettate dall’art. 7 TUE, dimostratesi sin qui poco efficaci, o, in alternativa, potrebbe deviare verso l’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione UE, strumento invece temuto dagli Stati membri, perché produce serie conseguenze sotto il profilo economico-finanziario. Non vanno dimenticati poi, nell’ottica descritta, gli atti integrativi dell’art. 7 TUE adottati dalla Commissione negli ultimi anni: il Quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto, del 2014, e la comunicazione Rafforzare lo Stato di diritto UE. Programma di azione, del 2019. Ed è allo studio un regolamento mirante a colpire con sanzioni finanziarie gli Stati membri che violano i diritti fondamentali.
La difesa della rule of law europea può rappresentare un elemento identitario importante per i cittadini europei, in un momento in cui la tenuta dell’assetto ordinamentale europeo è sottoposta a un fortissimo stress test sotto il profilo della risposta economico-finanziaria alla spinta recessiva prodotta dal Covid19. Non a caso, già prima che l’emergenza sanitaria si palesasse all’orizzonte, Ursula von der Leyen, nel discorso di insediamento, aveva attribuito una posizione centrale nel suo programma alla tutela della rule of law.
Saprà l’Unione Europa contrastare la protervia delle democrazie illiberali e difendere la dignità umana e i diritti fondamentali dei cittadini europei dalle spinte nazionalistiche volte a comprimere le minoranze e a rimuovere le diversità?
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