Lo stato di emergenza e lo stato di eccezione: una teoria liberale
11 aprile 2020
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Il modo di vedere che probabilmente animava chi difese la tragica scelta dei tre malcapitati era stato espresso, un po’ più di cent’anni prima, da David Hume, nella Ricerca sui principi della morale (1751): secondo Hume, la giustizia vale solo in condizioni normali, di relativa, ma non di estrema scarsità. Ma in una situazione di emergenza, per esempio, dopo un naufragio, o in una città assediata che stia morendo di fame, «le rigorose leggi della giustizia risulterebbero sospese». Nell’emergenza, i dettami della giustizia tacciono, anche se forse rimangono le esigenze di preservare l’ordine, e in nome dell’ordine il potere politico può calpestare diritti e libertà. Il mondo alle prese con la pandemia di Covid-19 è in queste condizioni? Siamo usciti fuori dalla sfera della giustizia?
I decreti del presidente del Consiglio, che hanno scandito le varie fasi del lockdown, fanno riferimento a un decreto legislativo, emanato il 2 gennaio del 2018, secondo il quale, di fronte a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo (sic!)», si può ricorrere a mezzi e poteri straordinari» (art. 7, comma 1, lettera c). In forza di tale dereto, il 31 gennaio del 2020, il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza, stabilendone la durata in sei mesi a partire da quella data, allo scopo di fronteggiare «il rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili».
Si tratta di una situazione realmente inedita. Come che se ne giudichino le ragioni e le conseguenze, siamo di fronte a una sospensione – uso intenzionalmente un termine neutro – della gran parte dei diritti costituzionalmente sanciti della grandissima maggioranza dei cittadini italiani. (E naturalmente il fatto che situazioni analoghe si verifichino in moltissimi altri paesi non è rilevante per un giudizio valutativo.) Probabilmente, si tratta della sospensione dei diritti e delle libertà costituzionali più ampia e prolungata nella storia della Repubblica. È una situazione in cui ha senso chiedersi: in condizioni estreme la giustizia deve tacere? In uno stato di emergenza i diritti e le libertà si possono calpestare, senza porsi problemi e farsi scrupoli?
Ha fatto molto discutere un breve pezzo di Giorgio Agamben (uscito il 26 febbraio, dopo il primo provvedimento di lockdown, a quell’epoca ancora limitato a Lombardia e Veneto), intitolato “L’invenzione di un’epidemia”. A questo pezzo ne sono seguiti altri tre: “Contagio”, dell’11 marzo; “Chiarimenti”, del 17 marzo; “Riflessioni sulla peste”, del 27 marzo. Secondo Agamben, il lockdown decretato dal governo è «un comportamento sproporzionato», che costituisce l’ennesima manifestazione di una tendenza di fondo, e non nuova, della nostra politica: «la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (corsivo aggiunto), una tendenza che caratterizza un disegno politico autoritario nascosto ma sistematico. Lo stato di eccezione, sostiene Agamben, è la sospensione delle normali garanzie liberal-democratiche – cioè dell’insieme di diritti e libertà generalmente garantite in una liberal-democrazia. Questa sospensione si ottiene interrompendo le procedure che le liberal-democrazie prevedono a difesa di diritti e libertà – per esempio, non facendo funzionare i vari organismi di controllo, soprattutto il Parlamento, oppure annullando la divisione dei poteri (come avviene nel momento in cui il governo legifera). E tutto questo per garantire la sopravvivenza, in condizioni di emergenza. Ma, avverte Agamben, il Leviatano – cioè il potere politico – è un mostro capriccioso, che può sfuggirci di mano, se non lo addomestichiamo e lo tratteniamo, o se allentiamo troppo facilmente le redini. Curarsi troppo della sopravvivenza, o cedere troppo facilmente all’idea di trovarsi in condizioni eccezionali, rischia di condurre alla tirannia – e di farci perdere un bene molto più prezioso.
Sosterrò che nella tesi di Agamben ci sia una parte di verità, ma che si possa rispondere ad essa elaborando una teoria liberale dell’emergenza (che, come vedremo, dissolve la dicotomia fra norma ed eccezione e rifiuta la nozione di ‘stato di eccezione’, pur salvando l’idea di condizioni di emergenza).
Sono possibili e sono state proposte due visioni dello stato di eccezione. Secondo alcuni, lo stato di eccezione costituisce una rottura ingiustificata dell’ordine politico legittimo, che è sempre pericoloso e difficile da irreggimentare e limitare. Essenza della liberal-democrazia è proprio evitare eccezioni allo Stato di diritto, alle procedure democratiche e alle garanzie a difesa di diritti e libertà. Non c’è emergenza che giustifichi uno stato di eccezione. Se ci sono condizioni tali per cui non si possono seguire le procedure democratiche e assicurare diritti e libertà, l’unica possibilità è il crollo della politica, il collasso dello Stato – una situazione di disordine profondo, un ritorno allo stato di natura, all’anarchia. In questo tipo di teorie, lo stato di eccezione è una condizione intrinsecamente immorale e illegittima.
Secondo altri, invece, lo stato di eccezione è il fondamento necessario dell’ordine politico legittimo, per due ragioni (alternative fra loro e corrispondenti a due versioni di questa tesi): a. perché l’ordine politico legittimo necessita di un sovrano – un supremo decisore, che fa ordine nel caos, costituisce lo spazio del diritto e dell’ordine politico esercitando il potere; oppure b. perché l’esercizio dei poteri di emergenza tipici dello stato d’eccezione serve, in certi casi, a salvaguardare i valori, i diritti e la libertà garantiti e realizzati dall’ordine politico legittimo: lo stato di eccezione è un rimedio alla corruzione della repubblica, in circostanze eccezionali, e tende a ripristinare le condizioni di salute, per così dire, dello Stato. La visione di Hume, in un certo senso, è simile: in certe condizioni, per preservare l’ordine – per garantire gli elementi minimi della sopravvivenza – il potere politico può sospendere, e quindi violare, certi diritti e libertà. La giustizia tace, per cedere il passo alle ragioni della sopravvivenza.
Ma perché mai lo stato di eccezione e i poteri d’emergenza dovrebbero essere al di fuori della legittimità, della giustizia, della moralità? Proprio la pandemia, a parer mio, suggerisce una terza visione dello stato di eccezione, una teoria liberale dove l’eccezione ricade comunque all’interno della sfera della legittimità, dove la giustizia non tace in condizioni di emergenza.
L’aspetto più rilevante della pandemia e delle misure che, più o meno dappertutto (anche se con tempi e modalità diverse), sono state intraprese ha a che fare con la dinamica del contagio e con la coordinazione che è necessaria per rallentarlo. Le misure di lockdown hanno un unico obiettivo: ridurre il tasso di contagio lavorando sulle fonti e i mezzi del contagio. Ciò significa ridurre il contatto fra le persone – indipendentemente dal fatto che esse siano realmente contagiose o no, in assenza di informazioni attendibili su questo. Ridurre il contatto fra le persone significa intervenire su una serie di comportamenti abitudinari e consolidati, legati a una miriade di attività tipiche, in un certo senso, della nostra società: il lavoro e la scuola, innanzitutto, ma anche gli stili di vita più in generale – l’accesso a luoghi di socializzazione e di divertimento, le abitudini consolidate nella gestione della vita casalinga e pubblica. Quest’intervento deve mirare ad attuare comportamenti coordinati: tutti debbono rimanere a casa. Anzi, l’obiettivo è sostituire a certi comportamenti coordinati ormai consolidati – tutti andiamo al lavoro a certe ore, rincasiamo a certe altre, usciamo per divertimento in certe ore e certi giorni – diversi comportamenti coordinati: inventare una nuova norma sociale.
La coordinazione sociale è una specie di miracolo: com’è possibile che tutti facciano la stessa cosa, o meglio che tutti facciano una serie di azioni individuali che, messe insieme, producono un risultato sensato, e forse anche migliore di quello prodotto senza coordinazione? Questa magia si realizza, talvolta e in maniere molto imperfette, e a prezzi talora molto alti, nel mercato. Ma in realtà c’è un mago che aiuta molto a compierla: lo Stato – o meglio il sistema di regole che i governi mettono in atto e che garantiscono il buon funzionamento del mercato e di altre istituzioni sociali. Beninteso: il mago-Stato aiuta, non determina. Senza il convincimento delle persone – che derivi da egoismo o altruismo, da interessi biechi o da valori morali – nessuna legge funziona. Anche in uno Stato autoritario, certe leggi funzionano perché la maggior parte delle persone diventa acquiescente, per una ragione o per l’altra. Gli studi di psicologia sociale sul senso di autorità degli individui normali hanno mostrato che molti regimi totalitari, ben prima che sul terrore, o in aggiunta al terrore, si sono fondati sulla passività dei loro cittadini. E il mago-Stato può diventare spesso un apprendista stregone, complice la psicologia sociale e l’acquiescenza all’autorità. Qui sta la verità contenuta nell’obiezione eccezionalista e nei timori di Agamben e altri.
Nella maggior parte dei casi, le regole di cui parlo stabiliscono, ma anche limitano, diritti e libertà. Non esistono diritti e libertà assoluti, per la semplice ragione che il diritto assoluto di qualcuno limiterebbe i diritti di altri. Il diritto alla libertà di pensiero non arriva a difendere chi, in un teatro gremito, urlasse: “Al fuoco!”, per vedere l’effetto che fa.
Nel caso della pandemia, gli Stati hanno fatto quel che era necessario – seppur spesso in maniere imperfette – a realizzare nuove strutture di coordinazione, andando contro abitudini consolidate, contro vere e proprie norme sociali. Quest’operazione non è stata ottenuta in maniere molto differenti, nonostante le apparenze, rispetto alle modalità consueta: diritti sono stati stabiliti – o meglio sono stati difesi – e diritti sono stati limitati. Il diritto alla salute è stato difeso, limitando il diritto al movimento, e talvolta il diritto al lavoro e all’istruzione. Per quanto possa sembrare strano, non si è realizzato nessuno stato di eccezione: lo Stato, o il governo, ha continuato a fare quello che fa comunque – rafforzare certi diritti, limitarne altri, con il fine di garantire condizioni egualitarie e diffuse di godimento di certi beni e diritti.
Lo stato di emergenza non è uno stato di eccezione in due sensi. Non lo è in senso descrittivo, perché non c’è nessuna discontinuità nell’azione del governo, che adesso come prima rende la coordinazione sociale possibile e rende diritti e libertà compossibili – cosa che, spesso, significa limitare certi diritti e libertà, o i diritti e le libertà di certuni, perché certi altri diritti e libertà, o i diritti e le libertà di certi altri, possano essere assicurati, e lo siano in egual misura per tutti. Non lo è in senso normativo, perché i valori che giustificano la coercizione del governo – se e quando quella coercizione è giustificata – valgono sempre, anche in condizioni di emergenza. La giustizia non tace mai: perché è giustizia assicurare a tutti (o al maggior numero possibile) la possibilità di avere, se si trovano nelle condizioni terribili in cui mette il virus chi ha malattie pregresse o immunodeficienza, un accesso a letti di terapia intensiva che sono disponibili in quantità limitata.
Tutto questo ragionamento non significa che nelle condizioni di emergenza tutto vada bene, che il superiore bene dell’ordine sociale giustifichi ogni cosa. Alle condizioni di emergenza si applicano gli stessi requisiti, le stesse basi di giustificazione dell’azione governativa in casi normali e consueti. Ogni limitazione di diritti va giustificata, e va giustificata a chi subisce la limitazione e a chi ne gode gli effetti. Ci si può, e forse ci si dovrebbe, chiedere come mai certe risorse siano così limitate – per esempio: perché abbiamo questo numero di letti in terapia intensiva, e non di più? Ci si può, e ci si dovrebbe, chiedere se il lockdown sia proporzionato o tardivo, o eccessivo. Si è detto che la pandemia è paragonabile a una situazione di guerra, e l’analogia è sghemba e infelice, anche e soprattutto per l’inutile aggressività che sollecita. Ma c’è un aspetto comune forse: si tende a pensare alla guerra come la sospensione di qualsiasi regola morale, come la situazione in cui tutto è lecito. Eppure, una tradizione secolare, che inizia da Tommaso e arriva a Michael Walzer, ha riflettuto sui limiti da osservare anche in guerra. Ed è una riflessione sui limiti della violenza che era nella mente di molti partigiani di formazione cattolica durante la Resistenza – il che mostra che anche in quelle condizioni, di reale emergenza, non si dava eccezione, cioè sospensione dell’orizzonte della moralità e della giustizia.
La necessità di fare in fretta può ammettere giustificazioni posteriori – come è stato quando Conte ha riferito al Parlamento. Ma la giustificazione ci vuole: ci possono essere poteri di emergenza, per proteggere certi diritti e farlo subito. Ma non ci possono essere poteri discrezionali: una teoria liberale dello stato d’emergenza implica che l’emergenza vada gestita alla luce dei valori che lo Stato liberale tutela in condizioni ordinarie, e che questa gestione sia resa chiara ed evidente a tutti i cittadini. E i trade-off, gli scambi fra i diritti di certuni e quelli di certi altri, o fra certi diritti e altri, vanno condotti con attenzione, alla luce di valori condivisi, e giustificandoli a tutti. Nelle Metamorfosi, Ovidio racconta la fuga di Astrea (la divinità della giustizia) dal mondo degli esseri umani, dove regna l’ingiustizia. Ma la giustizia non fugge mai, in realtà: sta a noi cercare di realizzarla, anche quando il mondo intorno a noi sembra più inospitale che mai.
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