L’inerzia degli apparati pubblici davanti all’emergenza sanitaria
21 aprile 2020
Le conoscenze scientifiche sino ad ora maturate sulla pandemia da covid-19 sono estese ma molto imprecise. L’agente patogeno è stato individuato ed è noto il meccanismo di diffusione. Al contempo, l’incidenza relativa dei canali di contagio, il livello e la durata della contagiosità, la rilevanza della carica virale, l’effettiva diffusione dell’infezione sulla popolazione nazionale, sono, insieme ad altri, elementi ancora privi di una risposta certa.
Le decisioni prese in questa prima fase hanno così vissuto il tipico dilemma della logica precauzionale. Esse si sono confrontate con un ampio spettro di conseguenze possibili senza avere il supporto di conoscenze scientifiche certe per fare previsioni accurate. Si sono concentrate sul rischio target – in questo caso la salute umana – ma così facendo hanno generato rischi secondari non meno gravi.
Il carattere “drammatico” delle scelte da affrontare avrebbe dovuto indurre il decisore ad accrescere il più possibile la sua conoscenza del fenomeno, per dosare al meglio la combinazione tra rischio target e rischi secondari. Il problema della conoscenza è invece restato all’ultimo posto nella scala di priorità degli apparati pubblici.
Nell’imponente serie di atti normativi, amministrativi e intrepretativi adottati in poche settimane dagli organi di governo statale e territoriale, le misure che hanno avuto la precedenza sono stati i divieti di movimento e di attività. Il rafforzamento delle capacità conoscitive si è posto all’altro estremo della scala, con previsioni sporadiche e risorse minime dedicate (v. l’art. 11, d.l. n. 18/2020).
Le attività degli apparati amministrativi non hanno dato segnali differenti. In taluni casi, le amministrazioni hanno consapevolmente rinunciato a “pezzi” di conoscenza per i quali avevano già attivato strumenti di ricerca. Nelle fasi iniziali della diffusione, per seguire le non molto lineari oscillazioni delle guidance WHO, il Ministero della salute ha ridefinito la nozione di possibile “caso” escludendo la semplice presenza di un “decorso clinico insolito o inaspettato” in una sindrome respiratoria acuta. Tali anomalie, inizialmente, erano state ritenute sufficienti per sottoporre il paziente al test di laboratorio. Nella nuova definizione, oltre ai sintomi occorreva un contatto qualificato con contagiati o aree di contagio (si v. le circolari del 22 e del 27 gennaio). La prima scelta era molto sensata. Il covid-19 aveva sintomi confondibili con quelli di influenze ordinarie, l’Italia aveva canali correnti di collegamento con le zone di esordio dell’infezione, le informazioni provenienti da uno stato come la Cina dovevano essere assunte con un margine di cautela. Si poteva temere che qualche caso silente fosse stato già importato, sarebbe anzi stato utile un riesame attivo di casi e decessi “anomali” almeno delle ultime settimane.
Altri sistemi sanitari nazionali hanno seguito il WHO in queste modifiche, ma era necessario farlo? L’amministrazione ha agito meccanicamente? O ha bilanciato i rischi che derivavano dalla rinuncia al margine precauzionale e gli eventuali benefici? La regola nella precauzione, in effetti, è che le condizioni locali – nel nostro caso, ad esempio, l’essere un paese con forti legami commerciali con la Cina – possono sempre giustificare un livello di protezione più elevato rispetto a quello fissato in termini generali.
In altri casi, gli apparati pubblici hanno dimostrato molta inerzia nel migliorare la qualità delle informazioni disponibili o nel cercarne di nuove. Le istituzioni sanitarie e di ricerca hanno prodotto dati giornalieri su contagiati, decessi, ospedalizzati ecc., apparentemente precisi ma in realtà estremamente “sporchi” perché privi di basi di calcolo affidabili. Nell’impossibilità di conoscere da subito il tasso di contagio effettivo, nulla avrebbe impedito di svolgere periodiche indagini statistiche su campioni, non necessariamente di grandi dimensioni. Il Ministero della salute e l’Istituto superiore di sanità non hanno avviato attività del genere, tanto che studiosi di statistica si sono fatti parte diligente, avanzando proposte in tal senso. Solo in questi giorni il tema è entrato nei progetti dell’amministrazione pubblica sanitaria. Un secondo versante era quello dei meccanismi di contagio. Gli studi sulle misure di distanziamento in precedenti epidemie indicano che esse, secondo il tipo e i soggetti coinvolti, hanno un’efficacia relativa differente e, a mano che si fanno più stringenti, possono avere un’utilità marginale decrescente. L’incertezza teorica sulle cause di contagio, anche qui, non impediva ricerche di tipo empirico. Con indagini costanti sui flussi epidemiologici, eventualmente per campioni, si sarebbero potuti individuare i più frequenti canali di trasmissione. Sarebbe stato possibile calibrare meglio le misure restrittive che, a fronte di benefici molto limitati, possono avere costi elevati. A parte uno studio dell’ISS sui primissimi casi di contagio, gli apparati pubblici non hanno prodotto più nulla di sistematico. Vi sono state solo iniziative circoscritte su base locale che peraltro hanno indicato l’esiguità dei contagi da contatti occasionali.
In definitiva, le decisioni pubbliche sono state sin qui adottate in una condizione di ignoranza che in parte è necessitata ma che in parte dipende dall’inerzia degli apparati pubblici. Sono mancati uffici in grado di coordinare e indirizzare tutte le risorse e le capacità di conoscenza disponibili e così il “nemico” è restato per lo più “invisibile”, come nel titolo di un bel libro di Carlo M. Cipolla sulle magistrature sanitarie rinascimentali alle prese con la peste. La ricerca di nuove conoscenze viene oggi avanzata come uno strumento per accompagnare la c.d. fase 2, quella di allentamento delle misure di distanziamento, non è stata mai vista come un mezzo per ridurre o costruire diversamente la fase 1.
Scontiamo senz’altro difetti del disegno organizzativo, ma forse anche alcuni tratti storici dei nostri apparati pubblici: la prevalenza delle competenze legali su quelle tecnico-scientifiche, l’attitudine ad affrontare le questioni anzitutto con “norme”, a vietare e prescrivere piuttosto che ad agire “boots on the ground” e produrre risultati, a trascurare i rimedi alternativi che oggi altre scienze mettono a disposizione (ad es., le economie cognitive, coniugate con le tecnologie dell’informazione). Limiti che paiono essersi trasmessi anche alle istituzioni scientifiche e di ricerca, che con maggiore dinamismo sarebbero forse riuscite a sopravanzare l’inerzia dei corpi burocratici.
Occorre cercare spazi di miglioramento per il futuro immediato. Altrimenti, anche la costituzione di ulteriori organi – come il comitato di esperti che dovrebbe elaborare le proposte per la ripresa – rischia di non essere efficace.
Lo sforzo principale potrebbe essere quella di mobilitare le capacità conoscitive esistenti, che comunque sono ampie. Tra i molti provvedimenti già adottati, ne manca uno che costituisca un meccanismo attivo di ricerca delle informazioni, cosa diversa dalla valutazione delle conoscenze disponibili. Se si pensa a programmi estesi di indagini sierologiche sulla popolazione, meglio definire rapidamente le regole per una rete diffusa con vari canali di accesso, anziché un sistema centralizzato che finirebbe per ingolfarsi. Se si ricorre alla telematica, occorre prendere la soluzione di punta, non conta se di origine nazionale, e garantire l’interoperabilità almeno con gli altri Stati della UE. Apparati come l’ISS, poi, potrebbero intensificare da subito la raccolta di dati dettagliati sui meccanismi di passaggio dell’infezione, a partire dalla ricostruzione di campioni di casi. Alcune surveys stanno in effetti partendo ma con oggetti circoscritti – operatori sanitari, RSA – analisi di tipo aggregato e con tempi che non sono compatibili con la situazione. Ove le risorse fossero insufficienti, l’Istituto potrebbe coordinarsi con Università e singole strutture sanitarie. Insomma, in attesa del meglio, lavorare – in rete – con quello che si ha portata di mano.
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