Oltre il Mediterraneo: il covid-19 nel mondo arabo
21 aprile 2020
Presi dalle nostre tragedie quotidiane, dimentichiamo i partner e i vicini della sponda Sud del Mediterraneo con l’Algeria, che è il secondo paese per diffusione del covid-19 in Africa, e come altri paesi si attrezza a difendersi dall’avanzata di questo infido nemico. Molti dei nostri mali si riflettono sull’altra sponda del Mediterraneo, a volte esasperati. Si pensi, ad esempio, alle esplosioni di malcontento nel nostro Mezzogiorno da parte di coloro che vivono di espedienti o di attività precarie che, con la chiusura delle attività lavorative e commerciali, si trovano in grave difficoltà. Una tale situazione può esasperare al punto da fare esplodere un malcontento latente, così come accadde al venditore abusivo che si dette fuoco in Tunisia, dando inizio alle rivolte\primavere del 2010\11. Questa fase di forzato isolamento può servire ad approfondire e capire meglio la complessità dei problemi, per poter ripartire a fine crisi con le idee più chiare e nuove strategie per non ripetere gli errori del passato.
Non si può parlare del mondo arabo al tempo del corona virus senza ricordare alcuni aspetti di questi paesi che ora si trovano a definire le loro politiche all’arrivo della pandemia. Dall’Iran al Marocco si legge di misure restrittive violate da gruppi di predicatori fanatici, che vedono nella pandemia la punizione divina per i corrotti, e da molte persone che si recano presso i mausolei di uomini pii ad invocare un‘intercessione per la propria salvezza. In alcuni paesi il severo controllo di polizia e militari è normalmente considerato un’inaccettabile violazione della libertà dei cittadini, ma paradossalmente in questi casi ne difende la vita. In questi paesi, poi, non vi è un sistema sanitario pubblico capace di sostenere l’impatto della crescita esponenziale dei contaminati dal covid 19, e tale carenza di welfare è stata proprio una delle cause delle primavere\rivolte arabe.
Come tutte le primavere, anche quelle arabe sono state seguite da autunno e inverno, e oggi molti Stati sono ancora lontani dal risveglio e passano da una clausura militare ad una sanitaria. Altri sono stati contagiati dalla voglia di riforme e per mesi la popolazione ha occupato pacificamente le piazze. Quelle del 2011 erano rivolte non solo arabe, si pensi a Occupy a New York, come anche quelle del 2019 che hanno invaso le vie di Honk Kong, Bagdad, Beirut, e sono riuscite ad ottenere dei risultati piccoli ma significativi, anche a Khartoum e ad Algeri. Come ricordava in una recente conferenza al Master Mislam della LUISS, l’ambasciatore Pasquale Ferrara, queste rivolte pacifiche riescono a conciliare antichi nemici al di fuori delle logiche dei partiti, e forse meriterebbero più attenzione.
Cercherei di fissare per punti alcuni elementi di riflessione a partire dalle rivolte arabe, mettendo a fuoco diversi aspetti rilevanti:
- mancanza di alternanza politica al potere;
- scarsi investimenti per promuovere il welfare;
- carenze nella lotta alla corruzione;
- strumenti vecchi ed inefficaci per contrastare la crisi economica;
- scarsi provvedimenti a tutela delle donne e poca attenzione alla crescita demografica;
- chiusura dell’Europa agli emigranti economici;
- crescita delle tensioni interne a seguito dell’influenza economica e culturale dei Paesi del Golfo;
- espansione della presenza economica cinese ai danni delle piccole imprese locali;
- ritorno dell’influenza russa a sostegno delle conflittualità e dello status quo;
- aumento della spesa militare a detrimento degli investimenti per lo sviluppo e la conseguente crescita dei conflitti e della crisi migratoria.
Cominciamo dal primo aspetto, mancanza di alternanza politica al potere, e colleghiamolo ad altri due elementi cruciali: la storia dei paesi e gli assetti istituzionali. Quando si parla di Stati falliti non se ne analizzano le cause storiche, politiche e culturali. Tra le cause va considerata la capacità o meno di gestire le risorse del paese, come anche la capacità di mantenere vive le ragioni che hanno determinato il consenso e dato legittimità al governo. Falliti gli ideali e mancati gli obiettivi socialisti, si è ricorso ai valori religiosi, ma anche chi trae legittimità da questi, non è detto che abbia adeguata capacità di governo.
I militari che hanno liberato l’Egitto dal colonialismo, hanno garantito ordine e crescita economica più di quanto non siano riusciti gli iracheni, i siriani e i libici. La forte componente religiosa che ha sostenuto la resistenza algerina non è mai stata del tutto messa in secondo piano dal secolarismo militare, ma con questa tutti hanno poi dovuto fare i conti attraversando anni di durissima guerra civile, proprio per la mancanza di alternanza al potere.
I regni di Giordania e del Marocco hanno molti aspetti in comune; i due sovrani discendono alla famiglia del profeta e sono riusciti a guidare i paesi verso un sistema monarchico costituzionale con parlamento elettivo e una discreta autonomia del governo dalla monarchia. Anche qui però la storia e la geografia influiscono sulle differenze: la Giordania, nata come Stato dopo la fine del sistema mandatario in Medio Oriente, è condizionata dall’instabilità regionale. Il Marocco invece ha una storia secolare, non è stato colonizzato dagli ottomani (a differenza degli altri paesi citati) e il protettorato francese è durato per un periodo relativamente breve, se confrontato con l’Algeria (dal 1830 al 1962). Il re oltre ad essere il capo politico del paese è anche il comandante dei credenti, inclusi cristiani ed ebrei (la comunità più numerosa nei paesi arabi). Il sovrano e il makhzen (sistema di potere della corte e i suoi alleati) controllano gran parte della produzione del paese, ma grazie alle riforme di Hassan II e del figlio Muhammad VI si è determinata un’apertura economica e costituzionale che ha risposto in parte alle richieste dell’opposizione. Il primo ministro socialista marocchino è stato nominato alla fine degli anni novanta, ma dopo le rivolte arabe del 2011 il re ha dato l’incarico ad un esponente del partito islamico di Giustizia e progresso, premiato dal voto.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, gli scarsi investimenti per promuovere il welfare, negli anni ’80, per favorire lo sviluppo, si sono realizzate free tax zone, e imprese straniere hanno realizzato industrie con agevolazioni fiscali. All’inizio sembrava un progetto win win, perché creava nuovi posti di lavoro ad apparente costo zero per lo Stato, e le imprese producevano senza pagare tasse e contributi ai lavoratori. Peccato che il mancato gettito fiscale abbia ridotto i fondi per la spesa pubblica, ridimensionando le risorse per il sistema sanitario e l’educazione pubblica. Con la fine del welfare ereditato dal socialismo arabo, gli investimenti nel sistema educativo e sanitario sono stati delegati al settore privato, affidando di fatto l’assistenza per i poveri ai fondi della carità islamica.
Il terzo aspetto riguarda le carenze nella lotta alla corruzione. I nuovi posti di lavoro creati dalle free tax zone, pur rispondendo ad un’esigenza primaria, non hanno migliorato il reddito dei lavoratori e la classe media degli impiegati e operai non riusciva a pagare i servizi privati più cari. Inoltre, per avere un permesso o un qualsiasi documento era, e ancora è, necessario pagare un “contributo” in percentuale tanto per un piccolo quanto per un grande favore. Questo guadagno illecito è condannato dalla shari’a perché causa ingiustizia e povertà. La corruzione aiuta molti impiegati pubblici a sbarcare il lunario, altrimenti sarebbero costretti a fare un doppio lavoro per vivere, ed in tal caso il secondo sarebbe per lo più in nero.
Il quarto aspetto riguarda la carenza di strumenti per contrastare la crisi economica. A questa si è aggiunta la crisi del 2008 e ora quella che consegue dalla pandemia in corso. L’emergenza del terrorismo ha portato ad archiviare il problema della corruzione e del clientelismo e a concentrare gli investimenti nelle spese militari, sottraendo ancora una volta preziose risorse al welfare. La mancanza di libertà e la corruzione continuano a bloccare lo sviluppo della piccola imprenditoria privata. Inoltre, l’aumento degli attacchi terroristici paralizza il proficuo business del turismo, mentre le rimesse dei migranti non bastano a colmare i bisogni di paesi.
Il quinto aspetto riguarda la parziale emancipazione delle donne, che non aiuta né la crescita economica né il controllo delle nascite, con l’effetto di una deriva demografica incontrollata. I giovani, seppure mediamente scolarizzati, non trovano spazi occupazionali adeguati alle loro attese.
Il sesto riguarda la chiusura dell’Europa agli immigrati, bloccando un’alternativa di speranza. Il venire meno degli spazi di lavoro stagionale, per il diminuito bisogno di manodopera, si somma al timore di aprire ai terroristi. Inoltre, la “fortezza Europa” spinge i migranti a rivolgersi a mediatori illegali che alzano i prezzi, in termini di costi e di rischi per la vita. La chiusura delle frontiere riduce anche la possibilità che i giovani una volta entrati in Europa ritornino in patria. Su entrambe le sponde i governi piuttosto che sostenere le classi disagiate, sono ricorsi alle sole misure di sicurezza inasprendo gli uni i controlli e gli altri la repressione.
Il settimo aspetto riguarda l’ambivalente influenza dei Paesi del Golfo, che sono intervenuti con aiuti cospicui, ma insufficienti, a dare risposte alle richieste delle piazze, mentre hanno alzato il livello dello scontro tra secolari e religiosi. Seppure abbiano provveduto a finanziare gran parte delle spese necessarie ad accogliere i profughi delle zone di guerra, di fronte al rischio di un cambio di regime, ad esempio in Libia e in Yemen, hanno scelto di schierarsi nelle sanguinose guerre fratricide, invece di cercare mediazioni come sarebbe nella loro cultura.
Per quanto riguarda l’ottavo aspetto, la corruzione e la mancanza di libertà hanno frenato e frenano gli investimenti europei ma non certo quelli cinesi. L’espansione della presenza economica cinese si è svolta ai danni delle piccole imprese locali, anche se ha contribuito con i suoi prodotti a basso prezzo a mantenere una certa capacità di acquisto alla classe media, un consumismo povero che negli ultimi decenni ha però bruciato la pregiata produzione artigianale.
La crescente presenza di capitali cinesi pone un’ipoteca sul futuro economico di questi paesi, a tutto danno dell’Europa, perché le infrastrutture sono ora sempre più controllate da loro: i cinesi hanno la capacità infatti di realizzare in tempi brevi porti, aeroporti e trasporti senza alcun vincolo politico e di rispetto dei diritti civili e si insediano così nei paesi.
Il nono aspetto è il ritorno della Russia sulla scena politica mediorientale, chiamata in causa all’esplodere della guerra civile siriana per difendere Asad dai jihadisti di al-Baghdadi e per controllare i suoi alleati ceceni. La Russia interviene a difesa dei propri interessi strategici nella regione e il suo successo sul campo siriano favorisce l’intervento dei consulenti russi anche in Libia, e così le armi che i ribelli non trovano in Europa le comprano dai vecchi alleati rafforzandone l’industria bellica.
L’ultimo aspetto riguarda l’aumento della spesa militare a detrimento degli investimenti per lo sviluppo e la conseguente crescita dei conflitti che comporta una grave crisi migratoria.
Infatti, guerre e rivolte portano con sé un altro malanno, che questa volta coinvolge anche l’Europa: l’emigrazione incontrollata. Se da una parte l’Europa, grazie alle antiche relazioni tra la Turchia e la Germania, riesce in gran parte a fermare l’emorragia verso il nostro continente, dall’altra parte i migranti pagano un alto prezzo in termini di vite umane tra quanti riescono a sfuggire ai controlli turchi. A queste si aggiungono anche quelle derivanti dall’apertura delle migrazioni dalla fascia subsahariana in seguito alla caduta di Gheddafi, dovute sia all’instabilità politica di quei paesi sia alla grave crisi ambientale con l’avanzare della desertificazione, che spingono molti giovani a lasciare la regione.
Nell’area del Nord Africa come in Medio Oriente gli investimenti nella spesa pubblica e in particolare in quella sanitaria, sono stati carenti, ed oggi le strutture pubbliche sono fatiscenti. L’attuale necessità di chiudere scuole e piccole attività colpisce in modo drammatico una gran parte della popolazione che in tempi normali vive di espedienti nei sovraffollati mercati.
Oggi i numeri dei colpiti dalla pandemia sono ancora contenuti, ma basta guardare alle difficoltà che incontra l’Iran, in termini di vittime e di carenza di presidi sanitari, per capire il rischio che una tale emergenza umanitaria si proponga in paesi vicini ai nostri confini. Come accennato, la paura della pandemia ha scatenato i predicatori più fanatici che hanno richiamato le masse a riunirsi in preghiera nei luoghi santi, nelle moschee come nei mausolei di uomini pii, come è avvenuto a Qom in Iran. Tale promiscuità ha favorito l’esplosione del virus in pochissimo tempo. In questo paese, come altrove, per tenere sotto controllo il panico si minimizzano gli effetti del virus, da una parte dando informazioni parziali sui numeri effettivi delle vittime e dall’altra lanciando un gran numero di articoli e interventi sui social che mettono in ridicolo le eccessive misure prese da alcuni Stati e dall’Organizzazione mondiale della Sanità.
I governi hanno imposto la chiusura delle attività del settore pubblico, ma non del settore privato poiché per molti è impossibile fermarsi, soprattutto per chi vive di poco. Le rivolte del 2011 partirono da un ambulante a cui era stato impedito di vendere i suoi poveri prodotti, ed il quadro economico complessivo rispetto ad allora non è migliorato. La risposta sovente data dai governi per evitare altre sommosse, prevede nuove misure di polizia, ma le carceri sono già piene e la repressione non aiuta a risolvere il problema della crisi pandemica.
In questo orizzonte la solidarietà islamica è spesso la più capace di intervenire a favore delle fasce di popolazione più deboli, come ha già fatto in passato nei momenti di crisi, per terremoti o guerre. Sulla carta l’alternativa islamica si presenta, per il popolo disperato, come la migliore soluzione ai mali del passato, ma questo non consente di affrontare le dieci criticità esaminate, rischiando invece di evolvere verso un’alleanza tra militari e religiosi sotto la protezione dei Paesi arabi più ricchi ma meno liberali, a discapito delle libertà fondamentali.
Si segnalano due risposte date dal Marocco e dalla Giordania, diverse ma allo stesso tempo attente la prima all’uso delle moderne tecnologie e la seconda al richiamo al sincero spirito religioso. In Marocco il Ministero dell’Industria ha chiesto al comparto tessile di convertire la produzione abituale in mascherine e sono passati a produrre 5 milioni di mascherine al giorno, distribuite in tutto il paese. Ai fornitori di aeronautica ed elettronica ha chiesto di sviluppare e produrre sia ventilatori non invasivi, con la maschera di ossigeno da fissare sul viso del paziente, sia modelli invasivi con il tubo che alimenta l’ossigeno direttamente ai polmoni del paziente sedato. Il re di Giordania El Hassan bin Talal in previsione dell’inizio del Ramadan, il mese rituale del digiuno previsto per la prossima settimana, ha rilanciato l’appello a “La solidarietà e il risveglio della coscienza umana”. Il sovrano promuove un coordinamento tra le principali istituzioni del mondo islamico per sottolineare l’universalità della elemosina rituale (la zakat), istituendo un’organizzazione per la Zakat e il sostegno reciproco su base internazionale.
L’Europa e le organizzazioni internazionali sono invitate a dare un segno di solidarietà e mostrare la capacità di rendere concreta e disinteressata la “fraternità” il valore più trascurato nella triade alla base della rivoluzione dei lumi.
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