Il virus che accentua le disuguaglianze
22 aprile 2020
Nella loro drammaticità le epidemie hanno avuto nel corso della storia anche alcuni effetti positivi. Tra questi vi è una generale riduzione delle disuguaglianze. Lo storico austriaco Walter Scheidel, professore a Stanford, indica le epidemie, le guerre, le cadute degli Stati e le rivoluzioni come “le grandi livellatrici” (“The Great Leveler” è il titolo del suo libro tradotto in italiano per Il Mulino), i “quattro cavalieri dell’Apocalisse” che storicamente hanno determinato una riduzione delle disuguaglianze. Lo storico economico italiano Guido Alfani, professore alla Bocconi, mostra come nell’Italia settentrionale le epidemie di peste del XIV e del XVII secolo furono seguite da decenni di sensibili riduzioni della disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Studi analoghi sono giunti alle stesse conclusioni per altre aree geografiche come Spagna, Germania e Impero Ottomano.
Questa evidenza storica porta economisti come Thomas Piketty e Branko Milanovic, due dei massimi studiosi di disuguaglianza, a concludere che, prima della creazione del Welfare State, la storia dell’Occidente è sempre stata caratterizzata da un elevatissimo grado di disuguaglianza sociale e che le uniche temporanee eccezioni si sono verificate in seguito ad epidemie, guerre e rivoluzioni.
Possiamo aspettarci un effetto simile anche a seguito della attuale pandemia? Possiamo almeno sperare che la drammatica situazione che gran parte della popolazione della Terra sta vivendo abbia questa conseguenza positiva nei prossimi decenni? Purtroppo, temo che non sarà così perché questa epidemia è molto diversa da quelle a cui si riferiscono questi studi, ed anche le modalità con cui gli Stati la stanno affrontando è diversa.
Le epidemie del passato causarono un alto numero di morti e quindi una forte contrazione dell’offerta di lavoro, con conseguente aumento dei salari reali. Si stima che la peste nera del ‘300 abbia causato la morte di circa un terzo della popolazione europea, colpendo in modo piuttosto omogeneo tutte le fasce di età di una popolazione peraltro in media molto giovane. L’epidemia di Covid-19 invece non sta avendo nessun impatto rilevante sulla forza lavoro: la mortalità resta bassa e riguarda quasi interamente anziani non più in età lavorativa. Ad oggi in Italia i morti di coronavirus sotto i 60 anni sono meno di 1000, meno di quelli causati ogni anno dagli incidenti stradali. Al contrario la crisi economica che seguirà al lockdown causato dal virus sta già determinando una crescita rapidissima della disoccupazione che presumibilmente produrrà una riduzione dei salari reali per alcuni anni. Pertanto, appare certo che questo effetto “virtuoso” delle epidemie sulla distribuzione del reddito questa volta non si verificherà.
In secondo luogo, le epidemie in passato determinavano una perdita di valore del capitale e una conseguente diminuzione delle rendite. Da questo punto di vista le guerre sono state storicamente molto più efficaci delle epidemie, perché nelle guerre una parte consistente del capitale viene fisicamente distrutto. Questo meccanismo potrebbe operare in parte per l’epidemia attuale, ma è difficile immaginare un effetto rilevante, anche perché veniamo da un lungo periodo di costante e significativa riduzione della quota del prodotto che va al lavoro e quindi al meglio potremo assistere ad una minima compensazione di questa perdita. Inoltre, una parte crescente del capitale è ormai rappresentata da capitale intangibile e l’impatto su di esso dell’epidemia e della conseguente recessione è quanto meno incerto.
Un secondo, e a mio avviso, ordine di fattori riguarda le politiche che fino ad ora sono state attuate per contrastare l’epidemia. Molto probabilmente queste politiche erano necessarie per salvaguardare la salute pubblica ed evitare tassi di mortalità eticamente e socialmente inaccettabili, ma dal punto di vista dell’equità qualche dubbio lo si può avanzare.
Il Covid-19 è un virus estremamente iniquo: non colpisce la popolazione umana in modo uniforme ma con modalità molto diverse per territori, età e genere. Da un punto di vista geografico, questo virus è chiaramente legato alla globalizzazione e quasi ovunque colpisce maggiormente le aree più esposte ad essa e quindi anche più ricche, quali ad esempio le regioni intorno a Milano, New York, o Madrid. In Italia l’86% dei decessi per Covid-19 sono avvenuti nelle regioni del nord, che sono anche le più ricche del Paese. La correlazione a livello provinciale tra incidenza del virus e PIL pro-capite è altissima.
Per quanto riguarda le fasce d’età il bias è ancora più forte: solo l’1,1% per cento dei decessi ha riguardato soggetti con meno di 50 anni e solo il 2 per mille con meno di 40. L’età media dei morti è 79 anni. Per i casi di positività l’asimmetria della distribuzione è meno accentuata (l’età media è 62) ma la grande maggioranza dei positivi in età lavorativa presenta sintomi lievi o medi. Infine è noto che, per motivi che la medicina non riesce ancora a spiegare, c’è un forte bias di genere: circa 2/3 delle vittime sono uomini e 1/3 donne.
Nonostante questa fortissima asimmetria dell’incidenza dell’epidemia, il governo italiano (così come molti altri governi), ha scelto di attuare politiche di blocco delle attività produttive omogenee per tutti i territori, le fasce di età e i generi e quindi i possibili effetti di riequilibrio del virus, che potenzialmente potrebbe “livellare” verso il basso anziani maschi che abitano nelle zone più ricche e industrializzate, vengono annullati dalle politiche pubbliche.
Da un punto di vista di giustizia sociale non è facile spiegare perché lo stesso devastante shock economico rappresentato dal prolungato lockdown debba essere imposto in modo omogeneo a tutto il territorio italiano e a tutta la popolazione senza distinzioni per età e genere. È difficile ad esempio non rilevare l’iniquità dell’imporre lo stesso freno alle attività economiche della Lombardia che ha ufficialmente 65000 positivi (ma probabilmente almeno 10 volte tanto) e 12000 morti (ma probabilmente almeno il doppio) e del Molise che ha 270 positivi e 16 morti. Se consideriamo che il PIL pro capite in Lombardia è circa il doppio di quello del Molise possiamo subito comprendere che un’occasione di possibile piccolo recupero dell’area più povera si tradurrà in una perdita di prodotto e reddito che inevitabilmente avrà un impatto molto più drammatico nella regione che già ora si trova in una situazione fortemente svantaggiata.
Lo shock economico determinerà un aumento della disoccupazione che, ovviamente, colpirà le fasce della popolazione in età lavorativa e molto probabilmente renderà ancora più drammatico i problemi della disoccupazione, sottoccupazione e precariato giovanili e femminili. L’inevitabile maggiore indebitamento dello Stato graverà sui giovani e giovanissimi che sono già stati penalizzati o trascurati dalle politiche pubbliche degli ultimi decenni. La crescita della disoccupazione quasi certamente colpirà le donne più degli uomini, ed i giovani sotto i 30 anni più dei lavoratori con età maggiore, mentre la maggiore resistenza al virus di queste categorie avrebbe potuto al contrario favorirne una maggiore partecipazione al mondo del lavoro. La partecipazione delle donne poi sarà ulteriormente penalizzata dalla chiusura delle scuole e delle case di riposo, con il conseguente aggravio del lavoro domestico e di cura.
In sintesi, non è difficile prevedere che l’identikit dell’italiano che subirà maggiormente gli effetti economici negativi delle politiche di lockdown è quello di una giovane donna che vive al Sud, ha un lavoro precario o in nero e deve occuparsi di figli piccoli e genitori anziani.
Le politiche di chiusura uniformi sono state probabilmente necessarie per garantire la salute pubblica ma le loro conseguenze non saranno uniformi ed è molto probabile che colpiranno più severamente fasce della popolazione che già si trovano in condizioni svantaggiate e che avrebbero potuto avere invece qualche beneficio. È pertanto necessario che le politiche che seguiranno al lockdown tengano conto di questo bias e attuino misure correttive, non solo con trasferimenti “caritatevoli” ma con politiche anche radicali che favoriscano l’occupazione giovanile e femminile. Ad esempio, una misura di decontribuzione e detassazione per i giovani lavoratori e ancor di più per le giovani lavoratrici pagata da maggiori contributi o maggiori imposte che gravino sugli anziani sarebbe una ovvia misura di compensazione. Ma ritengo improbabile che ciò avvenga: inevitabilmente la quota più grande degli aiuti andrà a favore della ripresa nelle aree più industrializzate e sarà rivolta al parziale ristabilimento dell’occupazione attuale. Basta seguire il dibattito di questi giorni sulla ripartenza per rendersene conto.
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