Il necessario principio di proporzionalità durante il lockdown

24 aprile 2020
Editoriale Focus Ripresa
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L’indifferibile necessità di contrastare l’epidemia con il distanziamento sociale ha provocato un clima da caccia alle streghe, alimentato da alcuni esponenti delle istituzioni e amplificato dai mezzi di comunicazione, propensi a stigmatizzare condotte innocue dal punto di vista sanitario, come la passeggiata o la corsetta solitarie in un parco, la raccolta di frutti in campagna o lo stazionamento su una panchina, sempre solitari.

Simili comportamenti sarebbero illegali perché il D.P.C.M. 10 aprile 2020 – per lo più replicando quanto già prescritto nel D.P.C.M. 22 marzo 2020 e nell’Ordinanza 20 marzo 2020 dei Ministri della Salute e dell’Interno – stabilisce che «sono consentiti solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità o per motivi di salute» (art. 1 lett. a) e che «è vietato l’accesso del pubblico ai parchi, alle ville, alle aree gioco e ai giardini pubblici» (art. 1 lett. e). Il rigore di simili misure merita qualche riflessione.

Per porre fine alla diffusione dell’epidemia non ci sono alternative al distanziamento sociale: questa è una delle poche evidenze scientifiche su cui tutti concordano. Ma non è proporzionato a tale obiettivo vietare tout court la deambulazione delle persone al di fuori della propria abitazione, anche quando chi esce lo fa distanziato dagli altri e in condizioni di ‘sicurezza’; oppure precludere l’accesso a parchi e ville, che sono gli unici luoghi la cui ampiezza consentirebbe di contemperare la necessità di tenere lontane le persone fra di loro con le esigenze di salute di quanti, minori e disabili più di ogni altro, hanno bisogno di stare all’aria aperta per consolidare il proprio sistema immunitario.

La proporzionalità delle misure restrittive è l’unico criterio di legittimazione politica e giuridica delle limitazioni medesime, soprattutto quando non si tratta più di disporre contenimenti temporanei per arginare lo tsunami sanitario ma occorre confrontarsi con un’emergenza destinata a durare nel tempo. Dopo settimane di stayhome e lockdown, bisogna avere l’umiltà di modificare strategia e non fare leva su restrizioni sproporzionate, che provocano solo scontento e frustrazione. Tanto più alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vieta coercizioni basate sul mero sospetto che una persona possa essere contagiata da una malattia infettiva.

Le stesse misure, drastiche ma inevitabili all’insorgere della crisi epidemica, diventano inaccettabili e sproporzionate dopo quasi due mesi, se non supportate da un’aggiornata cost benefit analisys che tenga conto della complessità delle dinamiche sociali e si conformi al criterio liberale della “stretta necessità” della restrizione, parametrata alla stregua del principio del minor sacrificio per la libertà.

Il principio di proporzionalità è stato enunciato agli inizi del secolo XX dalla dottrina e dalla giurisprudenza germanica, nel contesto specifico del «Polizeirecht» tedesco (le leggi di polizia), e in quel contesto esso implicava che «la polizia non deve sparare ai passeri con i cannoni» (F. Fleiner, Institutionen des Deutschen Verwaltungsrechts, Tubingen, 1912, p. 354). Attualmente la proporzionalità è uno degli architravi della giurisprudenza europea delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo. Attraverso il diritto comunitario, la proporzionalità è divenuta uno dei principi generali anche del diritto amministrativo, come argine al potere discrezionale quando questo si imbatte in un diritto fondamentale. Sin dagli anni ’70, poi, la proporzionalità è impiegata nella procedura penale in funzione di minimizzazione delle limitazioni della libertà personale.

Al di là delle più specifiche declinazioni che essa presenta nei diversi rami dell’ordinamento giuridico, la proporzionalità vieta in generale che le limitazioni dei diritti individuali disposte da qualsivoglia autorità superino la misura di quanto appaia strettamente necessario al raggiungimento dell’obiettivo politico da perseguire. Peraltro, in un contesto come quello attuale in cui tutto si gioca nella problematica relazione fra scienza e diritto – vale a dire fra le evidenze fornite dalla comunità scientifica accreditata e le scelte che il decisore politico è chiamato ad assumere – rispettare la proporzionalità significa ispirarsi a quei principi di prevenzione e precauzione che, dopo aver fatto ingresso nell’ordinamento giuridico grazie all’art. 191 TFU in materia ambientale, esigono una considerazione adeguata della gestione del rischio nel processo di formazione di tutte le politiche pubbliche.

Su tali premesse, le restrizioni per contenere la diffusione del Covid-19 possono essere considerate proporzionate solo negli stretti limiti in cui esse risultino funzionali ad arrestare il diffondersi dell’epidemia, ma cessano di essere tali quando riguardano comportamenti insuscettibili di propagare il virus. Alla stregua del principio di proporzionalità, la pandemia può giustificare il divieto di assembramenti e la robusta delimitazione del diritto di riunione (art. 17 Cost.), ma non potrebbe giustificare il protrarsi del divieto di uscire di casa. Sempre alla stregua del predetto principio, sarebbe possibile tracciare elettronicamente i contatti delle persone risultate infette per orientare efficacemente la profilassi sanitaria ma non sarebbe possibile, invece, sottoporre a indiscriminato controllo digitale ‘a distanza’ i movimenti di tutti gli altri. Ancora alla stregua del principio di proporzionalità è possibile selezionare tempi e modalità di riapertura delle attività produttive, la cui chiusura può giustificarsi esclusivamente quando esse risultino inconciliabili con qualsiasi forma di distanziamento sociale e di protezione individuale.

La necessaria proporzionalità delle misure di contenimento può realizzarsi, però, solo attraverso un serio dibattito pubblico svolto nelle sedi istituzionali proprie, che non sono certo i palazzi del governo centrale o regionale, ma le due Camere del Parlamento. Ed è questo un aspetto ancora più critico del mancato ossequio al criterio di proporzionalità di alcune misure di contenimento. Preoccupa che il Governo, a oltre un mese dal primo provvedimento adottato per arginare il diffondersi dell’epidemia (D.P.C.M. 8 marzo 2020), abbia continuato a disporre restrizioni attraverso uno strumento normativo della cui compatibilità con la Costituzione è legittimo dubitare, stante le espresse plurime riserve di legge stabilite in materia di diritti fondamentali; così come pare censurabile la persistente mancanza di una disciplina della quarantena con atto avente forza di legge.

Insomma, non si pensi di poter neutralizzare l’epidemia mettendo fra parentesi i diritti. Ci aspetta una lunga convivenza con il virus; non bisogna abbassare la guardia; è necessario protrarre ancora per molto la nuova socialità “a distanza”, indispensabile per rallentare e poi bloccare l’epidemia. In un simile contesto non giova a nessuno fiaccare la tenuta della popolazione con atteggiamenti autoritari, che puntano sulla reclusione di massa per assolvere alla necessità di tenere le persone lontane fra di loro per motivi sanitari. Meglio lasciare ai regimi totalitari e ai loro inaccettabili sistemi liberticidi l’illusione che il controllo sociale costruito sulla paura sia l’unico antidoto possibile all’epidemia e puntare su scelte differenziate e flessibili, cesellate in funzione degli specifici contesti in cui devono essere calate.

L'autore

Maria Lucia Di Bitonto è professore associato di Diritto processuale penale all’Università di Camerino e insegna Diritto processuale penale e Diritto e procedura penale degli enti al Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss, oltre ad essere coordinatore dell’Osservatorio sulla legalità d’impresa.


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