Per la ripresa è necessario modificare il patto di stabilità e crescita

4 maggio 2020
Editoriale Focus Ripresa
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

La sospensione del Patto di stabilità e crescita, dovuta alla pandemia del coronavirus, oggi permette di meglio valutarne le origini teoriche e la validità scientifica. Nato nel 1997, si basava su un semplice presupposto: ipotizzando una crescita del Pil nominale intorno al 5% e un tasso d’inflazione al 2%, con un rapporto deficit/Pil al 3%, il parametro debito/Pil sarebbe risultato in linea col valore di riferimento del 60 % del debito. Contemporaneamente, prevedeva, nel medio termine, il pareggio di bilancio o un avanzo, che avrebbe permesso di ridurre ulteriormente quei rapporti. Queste semplici, e semplicistiche, premesse, come fu sottolineato a suo tempo, erano errate. Anzitutto nella previsione di crescita del reddito nominale, che fino alla riforma del Patto, nel 2005, e dopo, si mantenne in media e in termini reali intorno alla metà; poi, in caso di pareggio del bilancio, nel non computare il tasso d’interesse. Lo stesso presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, alla domanda di quali ne fossero i presupposti teorici rispondeva che era “economicamente difficile da spiegare”. La crisi finanziaria della prima metà degli anni ‘90 del Novecento, inoltre, aveva causato un netto peggioramento dei disavanzi. I pochi Stati virtuosi erano Danimarca, Irlanda e Germania, che, ancora nel 1995, registrava il -3,5%.

Il parametro deficit/Pil al 3% era attribuito, anche, al valore della cosiddetta golden rule of public finance, che prevedeva che esso non dovesse superare la spesa di investimento che si aggirava proprio nella Repubblica federale tedesca – mirabile dictu – intorno a quel valore di riferimento.

Non a caso, nel 1995, fu proprio il ministro delle finanze tedesco Theodor Waigel a proporre l’adozione di un Patto di stabilità per cancellare il principio di flessibilità introdotto per i parametri del Trattato di Maastricht con l’articolo 104 lettera c da Guido Carli, all’epoca Ministro del Tesoro e rappresentante dell’Italia per la sua sottoscrizione. Egli riteneva “assurdo” che le condizioni di finanza pubblica di una nazione fossero valutate in termini di punti percentuali prestabiliti rispetto al Pil, senza considerarne le reali condizioni dell’economia. Era necessario che si verificasse solo la tendenza al raggiungimento dei parametri di Maastricht, rifiutando, così, la rigidità voluta dalla Germania, che li considerava inderogabili per l’adozione dell’euro. L’interpretazione di Carli, riguardante in particolare il rapporto debito/Pil, permise all’Italia, e non solo, di poter entrare nell’eurozona sin dall’inizio. Inserito in due risoluzioni politiche nel Consiglio europeo del dicembre del 1996, il Patto fu adottato nel vertice di Amsterdam del giugno del 1997.

Le critiche ai suoi contenuti, però, furono reiterate anche dopo la sua riforma del 2005, nonostante l’introduzione di obiettivi a medio termine differenziati per Paese, il prolungamento dei vincoli temporali per la correzione dei deficit, la valutazione degli oneri finanziari delle riforme strutturali e così via. Permanevano, infatti, e permangono, i problemi di politiche fiscali pro-cicliche, di asimmetria tra i Paesi in deficit e quelli in surplus, di conflitto d’interesse tra vigilanti e vigilati all’interno del Consiglio europeo; e questo, nonostante i numerosi tentativi di riforma intrapresi e mai realizzati, come dimostra l’ultima proposta di revisione del Patto avanzata dalla Commissione a inizio 2020, perché ritenuto “troppo complesso e poco trasparente”.

La sua maggiore criticità, tuttavia, ancora oggi dibattuta ma ormai riconosciuta, è la forma giuridica della sua attuazione.  Per cambiare un trattato europeo quale Maastricht è necessario un nuovo trattato, procedura che richiede l’approvazione dei parlamenti nazionali e, dove previsto e a differenza dell’Italia, la indizione di un referendum popolare. Se uno o entrambi gli esiti fossero negativi, anche in un solo degli Stati aderenti all’Unione, il trattato decadrebbe per tutti. Si ricorse, perciò, ad inserire il Patto nella fattispecie della normativa secondaria, fondata sugli articoli 99 e 104 dello stesso Trattato di Maastricht. L’adozione di una procedura politica, anziché giuridica, è stata confermata da un recente intervista a Romano Prodi, all’epoca presidente del Consiglio dei Ministri, contenuta in un volume di Angelo Polimeno Bottai del 2019.

Con previsioni di decrescita del Pil dell’Unione europea di oltre il 7% nel 2020 e un forte aumento dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil, per l’Italia rispettivamente 8,3 % e 155%, un improvviso rientro nei parametri del Patto di stabilità, senza modificarne i contenuti nella direzione già indicata dalla Commissione, significherebbe il ritorno a politiche di austerità non più sopportabili dopo il coronavirus. È necessario comprendere, oggi più che mai e parafrasando Mark Strand, che il futuro non sarà più quello di una volta.

 

L'autore

Giuseppe Di Taranto è Professore ordinario di Storia dell’economia e dell’impresa alla Luiss, dove insegna anche Storia del pensiero economico e Storia della finanza e dei sistemi finanziari.


Website
Newsletter