Il ruolo delle relazioni creditizie nel crollo del commercio
13 maggio 2020
- Può spiegarci la correlazione esistente tra fattori finanziari e crollo del commercio nella grande crisi finanziaria del 2008/2009 e, in particolare, il nesso che emerge tra le tecnologie di prestito delle relazioni delle banche e le attività di esportazione delle imprese?
C’è un’ampia letteratura economica tra accesso al credito, aspetti finanziari ed export. Già da metà degli anni 2000 sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista empirico è stata trovata una chiara correlazione tra mancanza di accesso al credito e difficoltà nell’accedere ai mercati internazionali. Questo è dovuto soprattutto a problemi legati ai costi di entrata al mercato dell’export che uniti a problemi finanziari ne riducono la possibilità di parteciparvi.
Tra il 2008 e il 2009 si è visto un crollo del commercio internazionale che seguiva la crisi finanziaria seguita al fallimento di Lehman Brothers. Il crollo del commercio internazionale è usuale nei periodi di recessione, ma dal secondo dopoguerra la proporzione tra crollo del PIL e crollo del commercio internazionale non era mai stata di portata così ampia.
Esistono molte teorie sulle cause del crollo del commercio internazionale del 2008. Una delle principali teorie è legata al ruolo della finanza, ed in particolare al ruolo dell’accesso al credito delle imprese. Il nostro studio, prendendo in esame un campione di imprese europee attesta come le tecnologie di finanziamento abbiano avuto un ruolo fondamentale in questo contesto. Su questo punto ci sarebbe da fare una premessa: nella letteratura di banking c’è un ampio dibattito sul ruolo delle tecnologie di finanziamento. In particolare, soprattutto nei paesi più banco-centrici (come Italia, Germania o Giappone), si è sviluppata una letteratura sul ruolo del relationship lending, che suggerisce che una più stretta relazione tra il responsabile del credito della banca e i manager dell’impresa possa ridurre le asimmetrie informative presenti nel rapporto creditizio. Questo avviene attraverso due principali canali: 1) la cumulazione di informazione pregressa attraverso i contatti tra il responsabile del credito, l’impresa e il suo ambiente di riferimento; 2) l’accesso all’informazione qualitativa (soft information), che può contenere una valutazione delle prospettive future dell’impresa, informazioni difficilmente reperibili nei bilanci.
- Perché il nesso tra l’accesso delle banche alle soft information e la resilienza delle esportazioni è particolarmente stretto per le PMI e per le imprese più giovani?
Facendo nuovamente riferimento al ruolo del relationship lending, vari articoli mostrano come la relazione sia maggiormente importante per le imprese più opache, ossia quelle imprese che mostrano maggiori asimmetrie informative. Normalmente le imprese sono percepite come più opache perché o essendo piccole presentano bilanci meno chiari per la banca (ad esempio, un bilancio non certificato), o perché essendo più giovani hanno una storia creditizia molto più limitata. La letteratura di banking ha quindi sottolineato come siano le imprese più piccole e le imprese più giovani ad avere maggiori problemi di accesso al credito. Questo è un problema molto rilevante soprattutto per paesi come l’Italia che hanno una struttura economica basata sulle piccole imprese. Ciò spiega perché il nostro studio trova che il nesso tra l’accesso delle banche alle soft information e la resilienza delle esportazioni durante la crisi del 2008-2009 sia particolarmente rilevante per le PMI e per le imprese più giovani.
Il ruolo dell’informazione tra banca e impresa è inoltre rilevante per le imprese che si sono affacciate ai mercati esteri da relativamente poco tempo, per cui non è disponibile informazione pubblica sulla loro attività all’estero. Nell’articolo troviamo infatti che l’impatto della soft information e delle relazioni creditizie sono più importanti per le imprese che sono nelle fasi iniziali del processo di esportazione (che quindi non sono regolarmente esportatrici o che esportano in un solo paese).
- Tenendo conto delle tecnologie di prestito delle banche, in che modo la regolamentazione e la vigilanza bancaria possono moderare meglio l’impatto degli shock finanziari?
La letteratura su questi aspetti mostra un doppio ruolo della regolamentazione della vigilanza. Sicuramente la vigilanza bancaria può attenuare i problemi di shock finanziari riducendone il rischio. Ricordiamoci che la crisi del 2008 è partita a causa di un fallimento della regolamentazione e della vigilanza finanziaria, e dopo quel periodo c’è stata una ondata di nuova regolamentazione dei mercati finanziari. Quindi da un lato la vigilanza può prevenire le crisi finanziarie, dall’altro però soprattutto com’è stata sviluppata in Europa, rischia di essere un freno alla capacità delle banche, in particolare delle piccole banche, di sviluppare modelli di business basati sulla relazione. La regolamentazione dunque rischia di essere un freno al ruolo della relationship lending. Questo in particolare in Europa dove il modello regolamentativo è stato basato quasi tutto sull’idea della one size fits all, non c’è dunque una particolare differenziazione tra regolamentazione delle grandi banche e delle banche più piccole, a differenza di quanto invece è stato fatto negli Stati Uniti. Questo rende molto difficile per le piccole banche l’utilizzo di tecnologie di finanziamento legate maggiormente alla relazione sia per problemi di compliance che per problemi di capitale. In quanto le imprese più piccole, o le imprese più giovani, sono le imprese più rischiose, quindi richiedono un capitale maggiore da parte delle banche. Pertanto, la regolamentazione può avere un effetto amplificatore anche degli shock perché riduce la capacità, in particolare delle piccole banche, di utilizzare la soft information.
- L’attuale momento di crisi che il nostro Paese sta affrontando a causa dell’emergenza COVID-19, può essere in qualche modo paragonato alla crisi finanziaria che ha fatto seguito al fallimento di Lehman Brothers, in termini di contrazione del commercio internazionale?
In primo luogo, bisogna evidenziare che i contesti preesistenti delle due crisi sono molto diversi. Si è arrivati alla crisi del 2008 in un periodo in cui il commercio internazionale era cresciuto moltissimo e la globalizzazione era vista con favore da tutte le autorità nazionali e sovranazionali. Il contesto attuale è un po’ diverso: veniamo da anni in cui sia a livello di opinione pubblica che da parte di qualche governo si percepisce una forte sfiducia verso la globalizzazione (basti pensare alle politiche di Trump). Veniamo quindi da due contesti diversi.
Ad oggi, l’emergenza COVID-19 ha già prodotto una contrazione del commercio internazionale, anche perché questa emergenza, a differenza della crisi del 2008, ha portato direttamente ad un blocco della produzione. Inoltre, l’organizzazione della produzione in catene globali del valore ha provocato degli effetti sul commercio internazionale già durante il periodo in cui il Coronavirus incideva soprattutto in Cina e non nel mondo Occidentale: il blocco della produzione cinese ha portato ad una riduzione della produzione anche negli Stati Uniti o in Europa (si parlava ad es. di costi maggiorati di Apple perché non arrivavano i pezzi dalla Cina). Adesso che, in realtà, tutto il mondo è bloccato ci sarà un tracollo del commercio internazionale per il quale è difficile immaginare una via d’uscita. Si prospetta una crisi di domanda e offerta in quanto è bloccata la produzione in molti settori e, a causa del blocco della produzione, molta gente perderà il lavoro, quindi ci sarà anche un crollo della domanda. Avremo quindi una forte contrazione del commercio internazionale e le risposte dovranno essere diverse rispetto al 2008. In questo contesto, il ruolo principale sarà in mano alla politica fiscale più che alla politica monetaria: in primis toccherà ai governi reagire.
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