Il Recovery Fund e l’unione fiscale

26 maggio 2020
Editoriale Europe | Focus Ripresa
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Il paradigma è stato cambiato. In un documento reso pubblico il 18 maggio scorso, i governi di Francia e Germania hanno proposto che la Commissione europea finanzi il Fondo per la Ricostruzione (per rispondere alle conseguenze economiche della pandemia) indebitandosi nel mercato “a nome dell’Unione europea (Ue) e nel pieno rispetto dei Trattati vigenti”. Se il debito è fatto a nome dell’Ue, dovrà essere il bilancio di quest’ultima a garantirlo, non già i singoli bilanci dei suoi stati membri. Ciò significa raddoppiare (dall’1 al 2 per cento del Pil totale) il bilancio europeo attraverso nuove risorse proprie dell’Ue. Occorre “migliorare il quadro fiscale dell’Ue…introducendo un’effettiva tassazione minima ed una tassazione equa dell’economia digitale all’interno dell’Unione…istituendo una Common Corporate Tax Base”. Le risorse del Fondo dovranno quindi essere allocate, ai settori e aree colpiti, sotto forma di sussidi (grants) e non già di prestiti (loans). Il documento franco-tedesco ha spaventato alcuni ed entusiasmato altri. Tra gli spaventati c’è il premier austriaco, che ha dichiarato che il Fondo in realtà “conduce alla mutualizzazione dei debiti nazionali”. Tra gli entusiasti ci sono esponenti politici italiani che hanno affermato che finalmente si va verso “un accentramento europeo delle politiche fiscali”. In realtà, sbagliano entrambi. L’alternativa non è tra l’attuale regime fiscale ed uno centralizzato. Vediamo come stanno le cose.

Cominciamo dalla situazione attuale. C’è un consenso tra gli studiosi (Marcus Jachtenfuchs, Philippe Genschel, Mark Hallerberg) che l’Ue sia caratterizzata da un regime di fiscal regulation (regolamentazione fiscale). In questo regime, gli stati membri (in particolare nell’Eurozona) hanno mantenuto la sovranità fiscale nella forma, ma nella sostanza quella sovranità è fortemente regolata da norme stabilite collegialmente dai loro capi di governo. Avendo deciso di dare vita ad un’Eurozona basata sulla centralizzazione della politica monetaria e la decentralizzazione delle politiche fiscali, è stato inevitabile che queste ultime finissero per essere iper-regolate per renderle compatibili con la condivisione di una moneta comune. Dal Patto di Stabilità e Crescita (1997-98) in poi, ma in particolare nel corso della crisi finanziaria del decennio scorso, l’Eurozona è stata sempre più fiscalmente regolamentata. Tale regolamentazione ha svuotato la sovranità fiscale di alcuni Paesi (i debitori) ed ha rafforzato la sovranità fiscale di altri Paesi (i creditori). L’esito è stato un incremento della divergenza economica tra gli uni e gli altri. Usare questo regime, per rispondere al Covid-19, avrebbe messo in crisi il mercato unico. Per di più, dopo la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio scorso, il governo tedesco ha dovuto rivedere l’idea che la politica monetaria può supplire ai limiti della politica fiscale in condizioni di crisi. Di qui, la necessità di pensare ad un nuovo regime fiscale europeo per sostenere il Recovery Fund.

È singolare che sia i contrari che i favorevoli alla proposta franco-tedesca abbiano subito pensato al regime di fiscal centralization (centralizzazione fiscale), che è proprio (per Arthur Benz, Julia von Blumenthal, Fritz W. Scharpf) dello stato federale tedesco. In Germania, la fiscalità è largamente centralizzata, anche se la riscossione è attuata dai Länder. Il regime tedesco si basa sul principio della “perequazione delle condizioni di vita” (Art. 107 della Legge fondamentale), principio che è garantito sia verticalmente (con trasferimenti di risorse dal Bund ai Länder più poveri) che orizzontalmente (dai Länder ricchi a quelli poveri, il cosiddetto Länderfinanzausgleich). Dopo l’unificazione del 1990, tale regime fiscale è stato messo a dura prova dallo sforzo finanziario sostenuto dal Paese per sostenere i nuovi cinque Länder dell’est oltre che la ricomposta città-stato di Berlino. Di qui, il processo ininterrotto di riforma che non si è ancora concluso, indotto anche dai ricorsi alla Corte costituzionale tedesca da parte dei Länder più ricchi (Baviera, Baden-Württemberg e Assia), secondo i quali la solidarietà tra Länder ha favorito la deresponsabilizzazione di quelli più poveri. Ma può essere, questo regime di Transfer Union, il modello per il Recovery Fund?

No, non può esserlo. Nell’Ue, l’accentramento delle politiche fiscali è sbagliato, prima ancora che impossibile. In un’Unione di stati, questi ultimi mantengono la sovranità fiscale per le politiche che sono di loro competenza, mentre l’Unione deve disporre della sovranità fiscale per le limitate politiche che le sono assegnate. Attraverso la tassazione per finanziare il Recovery Fund, l’Ue si dovrà fare carico del debito contratto dai singoli Paesi per rispondere alle conseguenze del Covid-19, non di più. Come riconosce Olaf Scholz, nella sua recente intervista a Die Zeit, un problema comune richiede risorse comuni. Guardando agli anni fondativi degli Stati Uniti, più che ad Alexander Hamilton (segretario del Tesoro, 1789-1795) dovremmo considerare Albert Gallatin (segretario del Tesoro, 1801-14). Se il primo (sulla base del Report scritto nel 1790) spinse il governo federale a ‘redimere’ il debito contratto dai singoli stati nella guerra di liberazione contro l’impero britannico, il secondo inventò la formula (grants-in-aid) per condizionare gli stati che ricevevano aiuto a perseguire obiettivi federali. Nel caso del Recovery Fund, gli aiuti agli stati dovrebbero sostenere la riconversione ambientale e digitale delle loro economie (Green New Deal), rispettando standard di inclusione sociale, trasparenza amministrativa e stato di diritto.

Insomma, la risposta alle conseguenze del Covid-19 richiederà la costruzione di un nuovo regime fiscale europeo. Una fiscal union che tenga distinta la responsabilità fiscale degli stati da quella dell’Ue. Ognuno deve fare la sua parte, avendo però i mezzi per realizzare le competenze assegnate. Ci vogliono modelli nuovi per affrontare sfide nuove.

Questo articolo è apparso precedentemente su Il Sole 24 Ore il 23 maggio 2020. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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