Il coronavirus e l’erosione del ceto medio
30 maggio 2020
Introduzione
Negli ultimi decenni del XX secolo il lavoro ha cominciato a cambiare radicalmente e velocemente per l’affermazione del terziario avanzato e del quaternario. Con il lavoro sono mutati anche i criteri di classificazione delle attività produttive. La mobilità orizzontale e la doppia mobilità verticale, ascendente e discendente, sono la cifra con la quale leggere molte dinamiche evolutive. Ad influire sulle modalità di questo meccanismo, che contempla anche forme di mobilità intra ed inter-generazionale, vi sono stati e vi sono molti fattori: politici e normativi; economici ed occupazionali; sociali e piscologici; antropologici e culturali. A seconda delle modalità con le quali, all’interno del sistema di stratificazione, è avvenuto il passaggio da una classe sociale all’altra sono cambiati gli effetti politici. Già nel XIX secolo, a partire da Marx in poi, sono stati messi in evidenza i rischi della progressiva eliminazione della “terra di mezzo” a causa dell’incedere della proletarizzazione. Espressione che in questo contesto viene usata non tanto nel senso letterale di passaggio dalla condizione di piccolo produttore indipendente a lavoratore salariato in conseguenza della perdita dei mezzi di produzione, quanto nel senso di esito di processi d’impoverimento, dequalificazione professionale, perdita di prestigio e reputazione.
Il meccanismo dell’ascensore sociale ha funzionato per molti decenni, come del resto già evidenziato da Max Weber, grazie a traiettorie di apertura e chiusura dei ceti sociali. Attività possibili anche per la presenza di sistemi politici solidi. Ha funzionato almeno fino a quando non si è arrestata la spinta produttiva, fino a quando cioè il motore dell’economia non è entrato seriamente in affanno, ma anche fino a quando le democrazie liberali non si sono confrontate con gli effetti della crisi della rappresentanza e della governabilità. Giustamente è stato messo in evidenza che la pandemia ha trovato la democrazia italiana in “condizioni penose” (Orsina, Luiss Open, maggio 2020). Abbiamo visto, del resto, quanto siano state deboli le risposte della politica, come polity e come politics più che come policy, a queste fragilità diventate strutturali con lo scorrere del tempo. Si pensi a quei progetti di riforma costituzionale respinti nel 2016 dagli elettori, al tentativo di introdurre in quegli stessi anni modelli di democrazia diretta, all’elaborazione di soluzioni compatibili con la domanda di confine sviluppatasi unitamente a spinte protezionistiche alimentate con l’intento di affievolire alcune conseguenze negative della dominante logica sovrannazionale.
La globalizzazione e le due recessioni
La crisi pandemica dovuta alla diffusione su scala planetaria di un coronavirus è, come si usa dire nel gergo sociologico (Mauss, 2002), un “fatto sociale totale” perché è in grado di produrre simultaneamente effetti in più ambiti. Anche per questo motivo il termine “pandemia” segnala la presenza di un bias semantico (Maturo, aprile 2020). Esso è il frutto del riscorso esclusivo al lessico medicalizzato.
Molti analisti interessati a comprendere quale sia il destino della globalizzazione come processo e come ideologia hanno messo uno accanto all’altro tre episodi oggettivamente assai traumatici e destabilizzanti per l’umanità: l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001; la crisi finanziaria ed economica del 2007-2008; il Covid-19. Si tratta di fenomeni completamente diversi, eppure, accomunabili dalla consapevolezza di aver procurato a livello globale la percezione della debolezza di sistemi idealizzati nei regimi immaginali delle culture tardo-moderne come impenetrabili, solidi, inattaccabili. Abbiamo capito una volta di più che la globalizzazione (Held, McGrew, 2001) significa soprattutto “azione a distanza” ed “interdipendenza funzionale” tra sistemi e sottosistemi sociali in nome di una complessità, per troppo tempo sottovalutata (Castells, 2017). Abbiamo capito una volta di più che effetti positivi, come le maggiori opportunità d’interazione e partecipazione tra le società di tutto il mondo, si sono alternati e si stanno alternando ad effetti negativi, come guerre, proliferazione nucleare, ampliamento delle zone povere, cambiamenti climatici, crisi economiche (Martell, 2010). E, appunto, pandemie. Non ha torto chi (Rampini, 2020), proponendo le dicotomie Oriente-Occidente e società-individuo, sostiene che la globalizzazione, per come era stata strutturata negli anni Novanta, ha cominciato a registrare le prime grandi difficoltà già nel 2008. Da allora, infatti, ci si è misurati con gli squilibri di cui sono vittime molti lavoratori e con la presa d’atto della vulnerabilità delle catene produttive delocalizzate. È, invece, presto per dire se la pandemia, come pure si tende a considerare, costituirà il definitivo colpo di grazia per la globalizzazione. Potrebbe, infatti, persino accadere il contrario, in ragione della spinta a ricercare soluzioni condivise.
Lo studio delle crisi precedenti a quella pandemica ci induce a misurarci da un lato con un “effetto catalizzatore” (Morlino, Luiss Open, maggio 2020) che può essere sintetizzato nella capacità di accelerare o rallentare il cambiamento soprattutto per ragioni tecnologiche, dall’altro con la resilienza non tanto a livello individuale, quanto a livello di società e di istituzioni politiche. È certamente molto condivisibile la tesi di chi ipotizza (Prencipe, aprile 2020) che la pandemia potrebbe essere il combinato disposto di tutte le crisi manifestate prima del Covid-19: una situazione ambigua, per dirla con il linguaggio della teoria organizzativa. Sono tante le questioni aperte per il futuro: ambiente, sviluppo sostenibile, lavoro, equità sociale, cittadinanza, migrazioni, identità, vecchie e nuove forme di socialità. Tra il 2008 ed il 2020 si registrano non poche differenze, a partire dal fatto che quella in corso è nata come crisi dell’offerta, anche se molto presto è diventata anche una crisi della domanda (Busacca e Costabile, Luiss Open, maggio 2020): all’inizio dell’emergenza il crollo delle intenzioni d’acquisto è stato del 30%. Oggi sono ancora timidi e circoscritti i segnali di ripresa (+5%).
Già in occasione della crisi finanziaria ed economica del 2008 avevamo assistito ad uno scivolamento verso il basso delle classi sociali alte verso le posizioni inferiori all’interno della middle class e di queste ultime in direzione delle categorie più indigenti. Avevamo anche assistito ad un allargamento delle distanze tra i due poli, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La tendenza è proseguita anche con la pandemia. Soprattutto con la pandemia.
Secondo la rivista Forbes, che ha utilizzato come parametro la valutazione dei cambiamenti di valore delle azioni, le 25 persone più ricche al mondo sono comunque riuscite a guadagnare pur operando in un periodo molto difficile come quello che stiamo vivendo. Al primo posto della classifica di chi ha guadagnato di più in questi ultimi mesi c’è Mark Zuckerberg di Facebook, che è salito dal settimo al quarto posto e che nel frattempo ha introdotto un nuovo servizio di e-commerce per fare concorrenza a colossi come Amazon ed Alibaba. Segue Jeff Bezos di Amazon e Mukesh Ambani di Reliance Industries, compagnia privata indiana. Forbes rivela anche che negli Usa sono state 39 milioni le persone che hanno presentato domanda per il sussidio di disoccupazione durante il lockdown. Un paper dell’Institute for Policy Studies, inoltre, evidenzia che durante l’emergenza Covid-19 i miliardari americani hanno visto aumentare di 282 miliardi la loro ricchezza totale in soli 23 giorni: un incremento del 9,5% tra il 18 marzo e il 10 aprile 2020 secondo le valutazioni fatte dal Billionaire Bonanza Report.
Grazie ai dati pubblicati da WID, relativi, però, al periodo 1980-2016, è possibile notare come la quota del reddito totale detenuta dal top 1% sia stata in crescita, mentre quella detenuta dal 50% più povero della popolazione sia stata sempre in calo. L’Italia è stato il Paese dove il top 1% ha detenuto la minore quota del reddito totale lordo a livello nazionale. Entrando più nel dettaglio: nel 1980 il 10% più ricco della popolazione italiana deteneva il 23% del reddito totale, mentre nel 50% più povero era concentrato il 30% di quello stesso reddito. Nel 2016 la quota di ricchezza del 10% più ricco è arrivata a quasi il 30% del reddito totale, mentre il 50% più povero ne deteneva il 24%. Le maggiori divergenze si sono registrate nel periodo 1985-2001. Poi è seguita una fase stazionaria e, quindi, nel 2016 un nuovo aumento. Un incremento che è stato ancor più visibile con gli effetti della crisi dei mutui subprime ed il crollo di Lehman Brothers. Il successivo 40% della popolazione non ha registrato significative variazioni almeno fino all’inizio della recessione (Gallo, 2019). Utile è, altresì, ricordare che in Italia il reddito del quinto dei cittadini più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei cittadini più poveri. Un dato questo presente nella classifica Eurostat 2018 che stabilisce un’evidente correlazione con il tema “salute”, visto che, nonostante il nostro sia un sistema sanitario universalistico, condizioni d’indigenza, stili di vita, possibilità di contrarre patologie (specie croniche) ed infezioni, capacità di cura, health literacy (Giorgino, Liuccio, 2018) sono elementi profondamente interconnessi. Le disuguaglianze sociali, perciò, possono essere considerate a ragione la chiave attraverso la quale leggere le pagine scritte in quest’attualità emergenziale, se non vogliamo che le disparità economiche diventino anche disparità di salute.
Rischio proletarizzazione per il ceto medio
La proletarizzazione è stata più frequente di quanto non si possa immaginare. Proletarizzazione di liberi professionisti, commercianti, artigiani e più in generale di partite Iva. Una condizione che con la pandemia rischia di aggravarsi. A quella sanitaria, infatti, si sta affiancando, giorno dopo giorno, anche un’emergenza socioeconomica. Il ceto medio rischia di erodersi ulteriormente. La rabbia rischia di esplodere se il sistema politico, che pure dovrebbe avere un certo interesse per questa categoria di elettori (consistente per numeri e distribuzione geografica), non darà risposte tempestive e concrete.
Si tratta di uno scenario che appare ancor più probabile se consideriamo il capitale “inagito”, come il Censis ha sempre definito gli italiani non utilizzati. Prendiamo in esame i dati Istat relativi al quarto trimestre 2019, dunque in periodo pre-Covid. La popolazione di occupati nel nostro Paese, a gennaio 2020, era di più di 23 milioni su un totale di 60 milioni di connazionali (il 40% circa). Dei 23 milioni, 18 milioni circa erano i lavoratori dipendenti, da suddividere tra lavoratori del settore privato e lavoratori del settore pubblico (quasi 15 milioni i primi e oltre 3 milioni i secondi), mentre più di 5 milioni erano quelli indipendenti. Gli inattivi in età lavorativa (dai 15 anni in poi) erano più di 26 milioni. I disoccupati erano, invece, circa 2,5 milioni. La quota di persone che non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare era di circa 23 milioni. La maggior parte dei lavoratori autonomi opera al Nord. Il dato nazionale relativo a questa voce continua ad essere il più alto di tutta l’Europa: più di Germania, Francia e Spagna. Anche questo valore numerico racconta qual è e quale sarà l’impatto pro-recessione causato dalle difficoltà che in questo momento stanno vivendo soprattutto i lavoratori autonomi e le partite Iva.
Secondo Confesercenti il 72% delle imprese ha riaperto nella Fase 2, ma due italiani su tre non hanno ripreso a fare acquisti poiché non avevano bisogno di prodotti e servizi o poiché non disponevano e non dispongono di risorse sufficienti. Quasi tutti gli esercizi commerciali che hanno riaperto, hanno ammesso di aver lavorato in perdita fino all’avvio del secondo step della Fase 2. Oltre la metà di loro (il 37%) ha segnalato vendite più che dimezzate rispetto alla normalità. Secondo un rapporto elaborato da Confcommercio in collaborazione con il Censis, a causa della crisi sanitaria e del conseguente lockdown, il 42,3% delle famiglie ha visto ridursi l’attività lavorativa ed il reddito. Il 25,8% dei commercianti ha dovuto sospendere del tutto l’attività. Dallo studio emerge anche che quasi 6 famiglie su 10 temono di perdere il posto di lavoro e che resta molto ampia la fascia di chi guarda al futuro con un certo pessimismo. Quanto ai consumi, il rapporto evidenzia che il 23% ha dovuto rinunciare definitivamente all’acquisto di beni durevoli già programmati (come ad esempio elettrodomestici, mobili, auto) ed il 48% ha dovuto rinunciare a qualunque forma di vacanza (week end, ponti, festività pasquali, vacanze estive). Il rapporto Confcommercio-Censis mette anche in risalto che oltre la metà delle famiglie italiane non ha programmato nulla per le vacanze. Il 30% rimarrà a casa non avendo disponibilità economica. Valore che sale al 57% per i ceti socioeconomici bassi. Solo il 9,4% partirà, ma con una riduzione del budget e con una permanenza molto più limitata rispetto all’anno scorso.
Per quanto riguarda i liberi professionisti, in base ai dati forniti dalle Casse di previdenza ed assistenza aderenti all’Adepp, emerge che alla data del 30 aprile 2020 erano pervenute più di 500 mila domande di ammissione al bonus di 600 euro per un importo che ha superato i 280 milioni di euro. Si segnala anche che moltissimi italiani non hanno ancora potuto beneficiare della cassa Integrazione. I lavoratori che hanno bisogno di questo ammortizzatore sociale superano i 6 milioni (Colombo, aprile 2020). Alla data del 20 aprile 2020 quelli che ne avevano beneficiato erano solamente 4 milioni. In attesa c’erano, considerando sempre quella data, altri 2,2 milioni di dipendenti privati. Era di 3 milioni, invece, la quota dei cosiddetti “invisibili” alla macchina dell’erogazione. Si ricorda che sono tre le forme previste dalla legge: cassa integrazione in deroga, cassa integrazione ordinaria e assegno ordinario. Si ricorda, altresì, che è compito delle Regioni comunicare all’Inps la lista dei beneficiari. Il meccanismo prevede in sostanza che l’azienda faccia domanda all’Inps sulla base di un calcolo presunto di ore di cassa integrazione, che l’Istituto istruisca la pratica e la autorizzi e che l’azienda invii il modello SR41 con gli aggiornamenti. Solo a quel punto l’Inps pagherà. Si considerino anche le difficoltà d’accesso alla liquidità, anche a causa di quell’ingenua idea di scaricare sugli amministratori delle banche (senza scudo penale, peraltro) la quasi totalità della responsabilità del non semplice meccanismo della garanzia statale. Il tema che qui si sta mettendo in evidenza ruota intorno a due categorie: i garantiti e i non garantiti. I secondi sono molto più numerosi dei primi ed è evidente che la dinamica più probabile sia quella della mobilità verticale discendente o, nella migliore delle ipotesi, dello stazionamento prolungato all’interno del gruppo d’appartenenza.
A questo punto dell’analisi è utile recuperare alcuni dati del sondaggio realizzato recentemente da Winpoll per il Sole 24 Ore in collaborazione con il CISE della Luiss (De Sio, Angelucci, maggio 2020). Più di un quarto del campione (il 26,8% su un totale di 1643 rispondenti) ha riferito di aver smesso di lavorare nel periodo di lockdown, mentre i restanti tre quarti si sono suddivisi tra chi non era parte di una categoria attiva neanche prima dell’epidemia (il 26,7%), chi ha continuato a lavorare (il 21,2%) e chi ha continuato a farlo da casa (il 25,3%). Dalla stessa ricerca emerge che solo il 52,5% degli intervistati ha visto mantenersi stabile la propria situazione economica, mentre il 47,5% ha registrato un peggioramento: il 20,3% una leggera diminuzione del reddito; il 17,2% una forte diminuzione; il 10% un azzeramento. Se è vero, come emerge da questa ricerca, che la gravità della situazione economica non sembra essere la spiegazione principale dell’atteggiamento maturato e manifestato dai cittadini nei confronti della riapertura delle attività produttive (quelli più in difficoltà socio-economica si sono dimostrati i più contrari) a riprova dell’assenza di atteggiamenti pregiudiziali ed ideologici verso le decisioni assunte dal governo, altrettanto lo è il fatto che l’incedere del tempo ha accresciuto la percezione delle difficoltà e dei disagi, rendendo la situazione oggettivamente preoccupante. Un conto, appunto, è essere garantito come avviene con i lavoratori dipendenti pubblici, altro è rimanere in balia dell’incertezza perché si è lavoratori dipendenti privati o lavoratori autonomi.
Conclusioni
Per poter provare ad uscire da questa situazione a rischio di conflitto sociale, appare del tutto evidente l’esigenza di intraprendere un percorso che faccia leva su risposte differenziate a livello territoriale secondo una logica molecolare e non più olistica. Un percorso che tenga in equilibrio il pubblico e il privato, che consideri la ricchezza un’opportunità di crescita del Paese e gli ammortizzatori sociali e le misure assistenziali un rimedio eccezionale, anziché la regola. Un percorso, cioè, che rilanci con i fatti (e non a parole) un piano di investimenti infrastrutturali capace di non accentuare il divario tra Nord e Sud. Anzi, in grado di comporlo all’interno di nuovi paradigmi socio-economici da elaborare in base alle molteplici trasformazioni in atto. Tutti obiettivi perseguibili solo in presenza di una classe politica disposta a rinunciare alle tentazioni autoreferenziali per trovare soluzioni condivise e di lungo periodo.
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