Giustizia penale al crocevia fra emergenze consuete ed emergenza sanitaria
3 giugno 2020
In ambito penale la parola “emergenza” è di solito usata in relazione alle forme criminali più aggressive. Per certi versi, la storia del processo penale e delle trasformazioni del diritto e della procedura penale negli ultimi decenni si presta ad essere letta come un concatenarsi di emergenze, ciascuna delle quali ha determinato un lascito normativo e culturale che ha plasmato la successiva evoluzione del sistema. Terrorismo, mafia, tangentopoli, recrudescenza del terrorismo interno, terrorismo internazionale, criminalità economica: sono queste tutte “emergenze” che hanno scandito l’evoluzione dell’ordinamento mentre, in parallelo, governi di diverso colore ed estrazione hanno enfatizzato i più disparati allarmi sociali (altre emergenze) per emanare alcuni “pacchetti sicurezza” relativi a diverse manifestazioni criminali come lo stalking, il femminicidio, il narcotraffico, la promozione, organizzazione, finanziamento e realizzazione dell’immigrazione clandestina, il traffico di essere umani.
L’esigenza di contrastare tali emergenze ha per lo più determinato l’introduzione di istituti “di eccezione” o tali da determinare una decisa soluzione di continuità rispetto al passato. Solo per fare qualche esempio, l’emergenza terroristica degli anni ’70 del secolo scorso, per un verso, sdoganò definitivamente l’uso della custodia carceraria a salvaguardia di esigenze general-preventive, nonostante la dottrina più garantista avversasse tale soluzione; per altro verso, propiziò l’avvento dell’imputato quale fonte di prova (art. 348-bis c.p.p. del 1930 inserito dalla l. n. 534 del 1977), superando il relativo divieto originariamente previsto in quello stesso codice e ponendo le basi per l’introduzione, qualche lustro più tardi, della figura dell’imputato-testimone (art. 197-bis c.p.p. inserito dalla l. n. 63 del 2001). Dal canto suo, l’emergenza mafiosa ha reso necessaria l’istituzione della Direzione nazionale antimafia (DNA), divenuta successivamente anche antiterrorismo, oltre che la creazione delle figure dei collaboratori e dei testimoni di giustizia, la previsione del regime carcerario ad hoc di cui all’art. 41-bis ord. pen. Ancora, l’urgenza di contrastare le più insidiose forme di criminalità economica ha provocato, agli albori del nuovo millennio, il definitivo superamento del tradizionale principio dell’irresponsabilità penale della persona giuridica, ormai assoggettabile all’accertamento della responsabilità da reato con le forme, gli istituti e gli organi della procedura penale (d. lgs. n. 231 del 2001).
Insomma, la fisionomia attuale del sistema penale ha trovato nelle emergenze via via succedutesi uno dei principali nerbi di sviluppo, sì da potersi affermare che la relazione fra giustizia penale ed emergenze costituisce un fatto ‘ordinario’ dell’esperienza attuale e passata.
Se questo è il quadro, occorre chiedersi se la recente pandemia sia destinata a essere metabolizzata dal sistema penale come un’emergenza qualsiasi, l’ennesima fra le le tante altre che l’hanno preceduta e la seguiranno. O se, piuttosto, essa rischi di rappresentare la chiave di volta per fratture con il passato difficili da ricomporre. A prima vista verrebbe da rispondere negativamente, posto che la crisi da Covid-19 si presenta come un’evenienza esterna alle dinamiche penalistiche, la cui natura sanitaria sembra destinata a impattare, per lo più, sui profili assistenziali della esecuzione penitenziaria, come in effetti testimonia la cronaca politica e parlamentare delle ultime settimane.
La risposta muta di segno, però, se si ha riguardo ad alcuni temi che occupavano quasi interamente il campo del dibattito penalistico alla vigilia dell’insorgere dell’emergenza epidemica. Nell’autunno-inverno 2019, e anche nei primi mesi dell’anno successivo, l’interesse di chi si occupa di giustizia penale è stato per lo più catalizzato dalla discussione di due argomenti: la prescrizione del reato novellata dalla cd. legge ‘spazzacorrotti’, da un lato; l’oralità e l’immediatezza nel giudizio penale, considerevolmente erose sulla base di una discutibile e criticata giurisprudenza costituzionale e di legittimità (Corte cost. n. 132 del 2019 e Cass., Sez.un., 10 ottobre 2019, Bejrami Klevis), dall’altro.
Sono, questi, istituti ad alta valenza politica. Quanto alla prescrizione del reato, si tratta di regola il cui fondamento sta tutto nell’idea che in uno Stato fondato sulla supremazia del diritto (principio di legalità) il potere di perseguire e punire i crimini debba essere cronologicamente delimitato, poiché il trascorrere del tempo dalla commissione del fatto attenua le esigenze di punizione e fa maturare un diritto all’oblio in capo all’autore di esso (v. in questo senso Corte cost. n. 49 del 2015). L’oralità e immediatezza, invece, sono principi cardine del giudizio penale inteso quale contesto in cui si procede all’accertamento della verità in funzione della tutela della libertà (art. 13, 24, 25, 27, 101, 111 Cost., art. 6 C.e.d.u.).
Al di là della distanza che separa queste regole – i cui diversi riferimenti normativi sono, per la prescrizione, il codice penale e, per l’immediatezza e l’oralità del giudizio, il codice di procedura penale – il sottinteso del dibattito relativo ad esse riguardava un aspetto centrale della vita democratica, vale a dire l’alternativa fra gestione autoritaria o democratica della giustizia penale.
Nei sistemi democratici l’accertamento che si compie nel processo penale è imperniato sulla presunzione d’innocenza e sull’inviolabilità della difesa. Presumere innocente l’accusato significa: dare prevalenza all’esigenza di garantire il singolo individuo contro il possibile arbitrio dell’autorità; organizzare i rapporti tra cittadino e giustizia sulla base di una concezione limitata dei poteri della seconda; non far gravare sulle persone sottoposte a processo i tempi necessari al suo svolgimento. Al contrario, ove prende piede una concezione autoritaria del potere, non si diffida dell’esercizio del potere, ci si fida esclusivamente del giudice e i costi del processo possono gravare sull’individuo; inoltre, non c’è bisogno di contraddittorio e nemmeno di partecipazione della difesa, perché il giudice fa e farà tutto quello che è necessario per l’accertamento della verità.
Di fronte a questa alternativa, il processo da remoto imposto dall’esigenza di contrastare l’epidemia Covid-19 rischia di diventare il deus ex machina di quanti reclamano metodi processuali sbrigativi che consentano di arrivar presto alla condanna, concependo il giudizio penale quale mero “condannificio”, in spregio di tutte le regole interne e internazionali a salvaguardia del fair trial e dei diritti fondamentali della persona accusata di un reato.
C’è da auspicare che non sia questa la direzione in cui si muoverà il sistema e da augurarsi che quanto prima la cd. fase 2 e la ripresa post Covid-19 riguardi non solo le attività produttive ma anche l’amministrazione della giustizia penale.
Il rischio del contagio può lasciare fuori dalle aule di giustizia il pubblico (art. 477 comma 3 c.p.p.), ma non può arrestare la celebrazione dei processi in udienza.
La giurisdizionalità del processo penale si esprime proprio nella sua natura di giudizio corale cui partecipano «le parti, giudicando su loro stesse» e il giudice (G. Foschini, Giudicare ed essere giudicati, 1960, Giuffrè, 13). Il processo è una “liturgia” in cui ogni elemento del rito è funzionale a vagliare l’ineffabile problematicità della ricostruzione dei fatti storici e a ridurre nei limiti del possibile l’insopprimibile soggettività del giudicante e la fallibilità dell’accertamento.
Il distanziamento sociale non può abolire l’insopprimibile ‘socialità’ dell’accertamento penale: ove ciò accadesse la pronuncia del giudice cesserebbe di essere espressione di iurisdictio per divenire mero imperium.
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