La sindrome cinese dell’Oms. La sanità e la nuova guerra fredda USA-Cina
3 giugno 2020
Da qualche mese, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) affronta una crisi sanitaria devastante, in un contesto, quello della governance della salute, che ha visto emergere alcune fondamentali debolezze. Ad esempio, proprio il mancato coordinamento tra paesi a livello globale nella gestione delle pandemie. Da un punto di vista legale, l’Oms non ha la capacità di imporre ai paesi membri (che ad oggi sono ben 194) norme e regole da rispettare in merito ai parametri sanitari. L’organizzazione è considerata il ‘braccio burocratico’ dell’Assemblea Mondiale della Sanità, un parlamento globale di membri delle Nazioni Unite dedicato alle questioni sanitarie, e svolge una funzione puramente consultiva. Sotto il profilo finanziario, dipende dal contributo dei paesi membri, calcolato in base alla popolazione e allo sviluppo economico delle singole nazioni ma notevolmente diminuito nel corso del tempo. In definitiva, l’Oms è divenuto sempre più dipendente dai contributi volontari di paesi e altre organizzazioni internazionali, governative e non. La questione della pandemia per l’Oms e per il suo direttore in pectore, Tedros Adhanom Ghebreyesus, non è, però, esclusivamente legata alla gestione della Sars-Covid-19 quanto alle critiche sull’opacità dei rapporti intrattenuti da qualche tempo con la Repubblica Popolare Cinese. Che si tratti di questioni economiche, o politiche, oppure, come in questo caso, relative al settore della sanità e della salute pubblica, l’atteggiamento sempre più assertivo di Pechino nella governance globale influenza oggi qualsiasi questione internazionale. Quello che dunque appare evidente, è l’alto grado di politicizzazione raggiunto sul tema, che di fatto ha travolto una tra le agenzie più importanti delle Nazioni Unite.
Con Pechino rapporti sempre più stretti
Negli ultimi anni la Cina ha aumentato il proprio ‘contributo volontario’ all’Oms passando da 8.7 milioni di dollari nel 2014 a circa 10.4 milioni nel 2019. Fonti del Ministero degli Affari Esteri Cinese hanno inoltre dichiarato che la Cina ha deciso di donare altri 30 milioni di dollari all’Oms oltre alla donazione di 20 milioni già effettuata ad inizio epidemia per sostenere la lotta globale contro la Sars-Covid-2 e rafforzare i sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo. Ma il paese non è in cima alla lista dei maggiori donatori, dove invece figurano Stati Uniti (primo posto) e Regno Unito (terzo posto), distanziati dalla fondazione privata Melinda & Bill Gates Foundation. Non a caso, è stato proprio il Presidente Trump ad aver minacciato la sospensione del finanziamento accusando l’organizzazione di aver coperto il governo di Pechino circa la scarsa diffusione delle informazioni all’inizio dell’epidemia e della sua successiva diffusione in Cina. Senza contare che l’endorsement dell’etiope Ghebreyesus al Presidente cinese Xi Jinping ha ulteriormente acceso il dibattito sulla stampa internazionale, considerati gli stretti rapporti politici ed economici tra Pechino ed Addis Abeba. Inizialmente, in mancanza di conoscenze circa la reale infettività del virus, è stato difficile per l’Oms pretendere di applicare misure restrittive con il fine di ottenere ulteriori informazioni oltre a quelle già fornite volontariamente dalla Cina, in un paese dove proprio la circolazione delle informazioni sulla gestione delle emergenze sanitarie necessita di fatto, del semaforo verde del Partito. Il rapporto che l’Oms intrattiene con la Cina è però considerato poco trasparente e sempre più allineato ufficialmente con il governo di Pechino. Quando il direttore Ghebreyesus si è recato in visita ufficiale il 28 febbraio 2020 non solo non ha sollevato alcuna critica circa la gestione dell’epidemia letteralmente ‘scoppiata’ due mesi prima a Wuhan, città della Cina centrale che conta più di 11 milioni di abitanti, ma ha sottolineato l’alto valore del contributo cinese nel proteggere la popolazione mondiale dal propagarsi del virus. Nessuna critica inoltre da parte dell’Oms circa il numero dei decessi dichiarato dalle autorità cinesi – ad oggi confermati 4,634 morti– e apparso nettamente in contrasto con il numero di vittime registrato in altri paesi. Tale quadro risulterebbe messo in dubbio da quanto pubblicato in un’inchiesta dell’Associated Press secondo la quale l’Oms e i suoi funzionari avrebbero cercato di ottenere informazioni sul coronavirus per valutarne il rischio reale e dichiarare lo stato di pandemia. L’endorsement dell’Oms aveva dunque l’obiettivo di non irritare la Cina in un momento estremamente delicato per la sanità globale con la speranza di limitare la diffusione dell’epidemia. Va sottolineato però che proprio le misure piuttosto restrittive messe in atto da Pechino durante la fase di lockdown –ad esempio l’utilizzo di comitati di residenti (volontari) locali supportati da moderni sistemi di sorveglianza ad alta tecnologia – si sono dimostrate fondamentali nel ridurre il contagio al di fuori della provincia dello Hubei.
Una nuova guerra fredda
Ma il vero terreno di scontro riguarda i rapporti tra Cina e Stati Uniti, ad oggi sempre più tesi e definiti dallo stesso Ministro degli Esteri cinese Wang Yi un contesto di nuova guerra fredda. Dallo scontro commerciale sui dazi si è ora passati ad una battaglia diplomatica in seno all’Oms. In aprile, la richiesta americana di far partecipare Taiwan all’Assemblea Mondiale della Sanità ha innervosito il governo cinese, da sempre contrario a qualsiasi tentativo indipendentista avanzato da Taipei. Durante la 73esima Assemblea dell’Oms, Australia e Stati Uniti hanno sollevato una mozione finalizzata a verificare origine e diffusione dell’epidemia da coronavirus in Cina, accusando il paese di aver provocato l’emergenza sanitaria all’interno di un laboratorio di Wuhan. Il Global Times – quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese – ha definito Stati Uniti, Australia e Taiwan paesi perdenti ed emarginati, incapaci di giocare un ruolo determinante nel contesto della governance globale. Al di là delle numerose perplessità circa la gestione da parte del governo cinese della pandemia da Sars-Covid-2, appare evidente come le tensioni crescenti legate al coronavirus tra Cina e Stati Uniti rappresentino in realtà una frattura più profonda, quella della competizione a livello globale di due potenze economiche sempre più interdipendenti e ancora una volta, portatrici di una visione del mondo profondamente diversa.
Newsletter
Articoli correlati
Perché la geopolitica rema contro il vaccino come bene comune universale
31 maggio 2021
Perché una governance globale del vaccino anti Covid-19 è così difficile da realizzare? La risposta risiede principalmente nelle numerose tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina. È all’interno di questo contesto che l’Unione europea si sta sforzando di fare la differenza.
Come uscire dalla Pandemia tra Schäuble e Draghi
19 maggio 2021
Per alcuni la pandemia ha messo in discussione gli equilibri di politica economica precedenti. Per altri ha prodotto una crescita impetuosa del debito pubblico che, tuttavia, va ricondotto prima possibile all’interno del precedente modello di politica fiscale. L’esito di questa contrapposizione definirà il futuro dell’Unione.
11 maggio 2021
Quali sono i principali motivi del record indiano di contagi e di decessi per Covid-19? Una nuova variante del virus più contagiosa tra i giovani, una certa reticenza a ricorrere a un secondo lockdown nazionale dopo quello dello scorso anno, una produzione di vaccini massiccia ma votata fino ad ora all’esportazione, infine strutture sanitarie troppo deboli. Ecco un’analisi della situazione attuale.
Il finalismo di impresa: come generare performance sul contesto sociale attuale
14 aprile 2021
Il finalismo d’impresa, inteso come quel processo di continua ricerca e continua definizione dei ruoli imprenditoriali, sociali e istituzionali di un business, è una dinamica che l’emergenza sanitaria determinata dalla diffusione pandemica del Covid-19 ha intensamente accelerato. Vediamo come e perché.