È una crisi del consumatore
4 giugno 2020
Da ben prima che l’Europa si auto-confinasse era chiaro che le conseguenze economiche del Covid-19 sarebbero state diverse da quelle delle “vecchie” crisi. Inizialmente si pensava fosse una crisi dell’offerta. Ma mentre i cargo che alimentano le catene di fornitura globali non hanno mai smesso di volare, quella che sta diventando la peggiore crisi economica degli ultimi 70 anni ha iniziato a mostrare la sua vera faccia: è una crisi della domanda. È in crisi il consumatore. È in crisi quel complesso sistema di comportamenti individuali e sociali che nel nostro Paese determina oltre il 60% del PIL – questo il peso record in Italia (rispetto ad altri paesi Europei) dei consumi di beni e servizi delle famiglie. Ed è ormai evidente a tutti che il crollo dei fatturati nei mercati di consumo non ha rapporti di simmetria, né temporali né dimensionali, con la ripresa.
Ma in cosa consiste una crisi della domanda? E come si stimola la ripresa di un consumatore in crisi, e non solo di risorse economiche? Le risposte, purtroppo, non sono semplici e la convenzionale – e sempre valida – distinzione fra trasferimenti e investimenti con cui si classificano i possibili interventi pubblici con finalità anticicliche devono essere ripensate, con al centro appunto il consumatore.
Bisogna, infatti, partire dall’evidenza che i mercati da cui “sgorga” la maggiore portata del PIL sono quelli di consumo. E che il consumatore segue delle leggi di comportamento economico molto più complesse di quelle che in passato si ritenevano valide, riducendo alla disponibilità di reddito e al prezzo le variabili sulle quali intervenire. Purtroppo non è così semplice, ormai, il mercato. E forse non lo è mai stato. Esiste, infatti, un problema di produttività del consumatore che può essere ben compreso, e di conseguenza gestito, solo riferendosi al costrutto centrale della marketing theory: il customer value, operazionalizzato e misurato come il valore complessivo percepito dal cliente, attuale o potenziale, che lo motiva all’acquisto e al consumo di un bene o di un servizio.
Non basta la riapertura per ritornare alla produttività dei consumatori che si registrava pre-confinamento. In Italia, a fronte del crollo delle intenzioni d’acquisto registrato a inizio emergenza (-30%) si registrano timidissimi segnali di ripresa (+5%), e solo per alcuni mercati. E non è il solo sussidio reddituale diffuso, neanche se fosse davvero helicopter money, che ridarà slancio stabile ai consumi. Oltre si intende ad alcuni fenomeni di “revenge shopping” a cui pure assisteremo, diventa sempre più probabile che senza adeguati interventi vivremo una crisi a forma di “L” per qualche anno.
È una crisi della domanda che si presenta come un vero e proprio crollo della produttività del consumatore, non solo a ragione del ridotto reddito discrezionale allocabile ai consumi ma anche a causa del diverso rapporto fra output (valore funzionale, simbolico ed esperienziale) e input dei processi di acquisto e consumo (I. Anitsal, D. Schumann, 2007, “Toward a Conceptualization of Customer Productivity: The Customer’s Perspective on Transforming Customer Labor into Customer Outcomes Using Technology-Based Self-Service Options”, Journal of Marketing Theory and Practice, Vol 15(4), 349-363)
Input più “pesanti” e output più “leggeri”. Fra i primi di certo l’impegno – non solo economico – alla spesa, appesantito da oltre due mesi di inattività diffusa, ma anche dal maggiore tempo necessario a immaginare, desiderare e realizzare acquisti e consumi che, peraltro, richiedono pure maggiori sforzi fisici, in un contesto di nuovi e inusuali livelli di scomodità. Gli sforzi sono diventati veri e propri “disconfort” emotivi derivanti da timori e incertezze per la sicurezza a dall’ansia generata dai protocolli di protezione e distanziamento. Lunghe file, mascherine, guanti, barriere fisiche, percorsi obbligati, distanziamenti, tutto peraltro cangiante e senza che sia sempre possibile comprenderne le ragioni.
Sulla produttività del consumatore pesano, poi, ouput alleggeriti anche dalla comunicazione confusiva sulla pandemia. Si pensi al rischio percepito dal consumatore, non più connesso a paure localizzabili e in qualche modo calcolabili (rischio in senso stretto), ma ormai mutato in vera e propria angoscia, e quindi in incertezza che paralizza i consumi o ne comprime l’ouput edonistico. Ed ecco che la depressione prima che economica è psicologica. E in un mercato che ci aveva abituato a consumi in prevalenza simbolici ed esperienziali, l’aumento di valore funzionale, derivante dalla trasformazione digitale e tecnologica di molti processi di acquisto e consumo, purtroppo non è compensativo. Le dimensioni del valore (e della produttività dei consumi), infatti, sono moltiplicative (J.N.Sheth, S.S. Rajendra, 2002, “Marketing Productivity: Issues and Analysis,” Journal of Business Research, 55 (5), 349–362). E quindi se anche i sussidi al reddito dovessero restituire capacità di spesa adeguata ai consumatori, i demoltiplicatori costituiti da sforzi, rischi e tempi, insieme alla minore gratificazione (simbolica e sociale) e ad esperienze estetiche attenuate non garantirebbero una adeguata ripresa del PIL.
Per quanto lodevoli, tutte le soluzioni in sperimentazione, come le app per gestire code e prenotazioni, i sistemi di sanificazione dal design cool e non intrusivo, orari e spazi ridisegnati, l’integrazione omnicanale per retailer convenzionali di ogni genere e dimensione, da sole non bastano. L’innovazione che serve per restituire produttività al consumatore deve essere molto più ampia e intensa. Per un Paese, come l’Italia, che ha una quota rilevantissima del PIL generata da consumi sociali (turismo e cultura), e che ha creato il made in Italy come garanzia iconica di “modernità godibile”, la sfida è enorme. Anche perché, come in tutti i periodi di crisi, crescerà, e di molto, l’attenzione alla qualità intrinseca delle offerte e al loro equilibrato rapporto con il rispettivo valore monetario. Un valore monetario che sarà soppesato in misura crescente a ragione delle ridotte capacità di spesa e che spingerà quindi le imprese a compensare con adeguati incrementi di qualità intrinseca il delicato rapporto.
Poco sinora è stato previsto per incentivare forme di innovazione e sperimentazione che consentano di ripensare il modello d’impresa con cui ci si propone al mercato, ovvero di ridisegnare le operazioni di acquisto e di consumo, restituendo piacere ludico al consumo individuale e sociale, riducendo i maggiori sacrifici fisici e mentali. Il tutto potrebbe avvenire con investimenti innovativi e tecnologici che, come noto, a differenza dei soli trasferimenti, moltiplicano il PIL. Perché da questa crisi, più che da tutte quelle che abbiamo visto negli ultimi 70 anni, non ci salveranno né lo Stato-paternalistico né lo Stato-Imprenditore, che peraltro abbiamo già ben conosciuto e che oggi partirebbe molto più indebitato e sottocapitalizzato rispetto al passato. Chi ci potrà salvare è la visione e la passione di imprese capaci di innovare combinando tecnologia, competenze e sperimentazione finalizzata a rigenerare il valore per i consumatori. Qual valore che determina la produttività da cui “sgorga” il PIL. Proviamo a bilanciare trasferimenti e investimenti, aiutando le imprese ad innovare. È solo così che si può sperare di uscire in qualche anno da questa drammatica crisi; ed è solo così che lo sforzo dei nostri straordinari imprenditori diventerà una fonte di innovazione e competitività da giocare anche sui mercati internazionali.
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