La crisi pandemica e la democrazia
6 giugno 2020
Sopravvivrà la democrazia italiana al coronavirus? È una domanda che fa spavento anche solo porre. Ma la democrazia italiana era già fragile prima, covid-19 l’ha ulteriormente indebolita, e le conseguenze della pandemia metteranno le istituzioni sotto una pressione enorme. La domanda allora, purtroppo, ha un senso. E ha senso ragionare sulle sfide che verranno e prepararsi al peggio. Senza mai perdere la speranza, naturalmente, che la realtà si riveli migliore delle nostre paure.
- La pandemia ha trovato la democrazia italiana in condizioni a dir poco penose. È dal 2011 che il Paese non ha un governo dotato di una robusta legittimazione elettorale. Si dirà che in un regime parlamentare l’esecutivo deve avere la fiducia delle camere, e tutti i gabinetti dal 2011 a oggi l’hanno avuta. Certo. Ma questo è un ragionar per forme. Nella sostanza, dalle elezioni del 1994 a quelle del 2008 gli italiani hanno avuto la possibilità di scegliere il governo. Soggettivamente ci si erano abituati. Oggettivamente si trattava di un grande passo in avanti per la democrazia italiana. Ma dal 2013 in poi quella possibilità è venuta meno. E a guidare i governi si sono succedute persone che coi risultati elettorali avevano un rapporto assai labile, quando non inesistente.
Indebolendo l’esecutivo, questo cambiamento avrebbe almeno dovuto restituire centralità al parlamento. Macché! Il parlamento non è un luogo d’iniziativa politica perché i partiti sono politicamente evanescenti. Ha perduto di capacità tecnica per la mediocre qualità media dei parlamentari. Non riesce più a rappresentare un Paese che cambia idea ogni sei mesi. Ha avallato esso stesso la propria crisi votando un taglio dei parlamentari motivato esclusivamente dal disprezzo nei suoi confronti. Infine, è popolato di deputati e senatori che, proprio per l’evanescenza dei partiti cui appartengono e la mutevolezza dell’opinione pubblica, sanno di non poter sopravvivere all’elezione successiva e sono disposti pressoché a tutto pur di prolungare un’esperienza che considerano un terno al lotto. Per gran paradosso, l’ascesa del partito anticasta ha reso la conservazione della poltrona ancor più decisiva di quanto non lo sia mai stata.
Un governo pur privo d’una robusta legittimazione elettorale non può che prevalere su un parlamento così combinato. Anche perché può appoggiarsi sulla Presidenza della Repubblica, che i lunghi cicli settennali schermano dagli psicodrammi elettorali e politici. Sia chiaro: meno male che il Quirinale c’è, se no chissà che marmellata sarebbe oggi il potere in Italia. Però il Presidente non è nemmeno lui legittimato dalle urne, se non indirettamente, quindi può sì “ancorare” il governo, ma non dargli forza politica. In conclusione: il parlamento rappresenta poco e conta meno. Il governo conta ma non rappresenta praticamente più nulla. Il Presidente dà un minimo di stabilità a quest’edificio disfunzionale e precario, ma per farlo è costretto svolgere compiti che in una democrazia ben temperata non gli spetterebbero.
- Durante il lockdown, e soprattutto nella sua prima fase, i poteri sono stati ulteriormente accentrati dal governo, e in particolare dalla Presidenza del consiglio. Non entro qui nella polemica sulla legittimità dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri e non mi fermo nemmeno a considerare se gli strumenti fossero proporzionato alle circostanze. Guardo piuttosto agli effetti oggettivi sulle istituzioni: il parlamento è stato emarginato ancora di più. Se tutto quello che ho detto finora ha un senso, del resto, dove si sarebbero mai potuti concentrare i poteri di emergenza, altro che nelle mani del vertice dell’esecutivo, silenziosamente sostenuto e vigilato dal Quirinale?
Coi governi Conte I e II, però, il vertice dell’esecutivo è diventato un luogo particolarmente vuoto in termini politici e particolarmente carente di legittimazione democratica. Di più: Conte è salito a Palazzo Chigi, e ci è restato dopo la crisi dell’agosto 2019, esattamente perché è politicamente vuoto e carente di legittimazione democratica. Questo ha reso la sua presidenza un luogo perfetto per l’incontro dei poteri: i partiti della maggioranza, l’apparato statale, il Quirinale guardiano degli impegni internazionali, i gruppi di pressione più robusti, nazionali e internazionali.
Non potevamo assistere a dimostrazione più lampante della crisi del politico, e perciò della democrazia: il massimo del potere nel luogo politicamente più vuoto. Come meravigliarsi allora che, di fronte alla pandemia, il governo abbia moltiplicato le commissioni tecniche e ci si sia nascosto dietro? La vacuità politica dell’esecutivo, d’altra parte, è conseguenza diretta dell’evanescenza dei partiti della maggioranza e dell’opposizione. La politica italiana sembra ormai una giostra di calviniani cavalieri inesistenti, vuoti dentro il guscio dei tweet e delle dichiarazioni apodittiche al TG1 delle 20.
Il lockdown ha amplificato inoltre due difetti storici della nostra democrazia. La tendenza a concepire il potere in termini polizieschi, innanzitutto: strumento di repressione di cittadini immaturi e irresponsabili quando non criminali. Speriamo che questo atteggiamento, che è stato ben presente durante la clausura, non lasci troppi strascichi di lungo periodo. In secondo luogo, la faziosità sofistica del dibattito politico. La nostra sfera pubblica, tanto ai piani alti dei media mainstream quanto a quelli bassi dei social, si è segmentata ancor più del solito in clan rivali chiusi ciascuno nei propri pregiudizi, pronti al riflesso pavloviano, incapaci di dialogo coi clan rivali. Una sfera pubblica pluralista fino al caos, ma mai davvero libera.
- Entrata nel lockdown in condizioni infelici, uscitane in condizioni più infelici ancora, la democrazia italiana deve ora affrontare una prova terribile, e con ogni probabilità dovrà affrontarne una seconda nel 2021. La prima prova è ovviamente la crisi economica e sociale scatenata dalla pandemia, che stando a tutti gli indicatori sarà gravissima. In termini politici quella crisi è destinata a porre una serie di domande l’una incatenata all’altra: quanta rabbia è destinata a generare? Se la rabbia sarà tanta, sarà incanalata politicamente o resterà priva di rappresentanza? Se sarà incanalata politicamente, da chi lo sarà? E ai partiti che riuscissero eventualmente a incanalarla, sarà dato spazio nelle istituzioni? E se sarà dato loro spazio, sapranno usarlo responsabilmente? Ci si potrebbe divertire a rappresentare graficamente quest’albero delle possibilità. Ma sarebbe un divertimento amaro, perché dei tanti rami di quell’albero forse soltanto un paio portano in luoghi rassicuranti.
La seconda prova sarà la possibile crisi finanziaria del 2021: il momento nel quale il debito pubblico italiano potrebbe dimostrarsi insostenibile. È molto prematuro ragionare di quest’eventualità perché il quadro nel quale si colloca è ancora in divenire, e le decisioni che lo costruiranno saranno prese soprattutto in Germania (Berlino, Karlsruhe, Francoforte), nelle altre capitali europee e a Bruxelles. Almeno un dato si va facendo sempre più evidente, però, soprattutto dopo la sentenza della Corte Costituzionale tedesca e la recente iniziativa congiunta di Merkel e Macron: dall’Europa non giungeranno aiuti incondizionati.
È possibile sostenere che il governo Monti abbia rappresentato la condizione richiesta all’Italia per il “whatever it takes” di Draghi che nel 2012 salvò l’Italia dal default. Gli elettori italiani non hanno reagito bene a quella condizione, però: prima è esploso alle urne il Movimento 5 stelle, poi sono arrivati i sovranisti. Da allora, come abbiamo visto, le condizioni della democrazia italiana si sono aggravate e il quadro economico e sociale è peggiorato. Come reagiranno gli elettori, se fra qualche mese saranno posti di fronte alla scelta fra solidarietà europea e sovranità? Riusciranno i cavalieri inesistenti che giostrano nello spazio pubblico a evitare che il conflitto politico fra l’eventuale futuro commissario e gli eventuali futuri commissariati devasti la democrazia italiana?
Questo articolo è precedentemente apparso sull’Espresso del 24 maggio 2020. Riprodotto per gentile concessione.
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