I benefici dello smart working

9 giugno 2020
Editoriale Focus Ripresa
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Fino al 1° marzo 2020 il lavoro agile o smart work rappresentava per il grande pubblico un illustre sconosciuto. Persino gli addetti ai lavori, seppure con qualche lodevole eccezione, non avevano dato grande peso alla legge n. 81 del 2017 che lo aveva disciplinato sia per il privato che per il pubblico. Nelle amministrazioni una Direttiva del Presidente del Consiglio del medesimo anno (3/2017) aveva dato il via alla sua sperimentazione, con l’obiettivo di raggiungere in un triennio il 10% di dipendenti agili. Le esperienze che erano seguite, supportate nel pubblico da progetti pilota finanziati dall’Unione Europea, stava dando appena i primi frutti, delineando un quadro operativo per una modalità di svolgimento della prestazione fondata su tre pilastri: volontarietà del suo utilizzo, natura blended (dentro e fuori il luogo di lavoro), assenza di una postazione fissa (tipica invece del telelavoro). Fino al 1° marzo 2020. Da quella data il lavoro agile ha invaso le nostre esistenze, diventando, di fatto, il primo dei dispositivi di protezione individuale (DPI), dei quali tanto si parla proprio in questi giorni di graduale ripresa. Si tratta, peraltro, di un dispositivo a costo zero per l’impresa o per l’amministrazione, dato che datore e lavoratore sembrano ritrovarsi nella più classica delle win-win situation, se non altro per quanto riguarda l’assenza di esposizione al contagio derivante dall’occasione di lavoro.

Certo, il lavoro agile al tempo del Covid-19 si pone, per esplicita volontà del legislatore, in netta antitesi con quello ordinario: non è più volontario, potendo il datore obbligare il lavoratore ma vantando anche, quest’ultimo, nei casi di particolare fragilità personale, un diritto all’utilizzo; non è più blended, essendo il lavoratore confinato nella propria abitazione; non è più agile, per il medesimo motivo.

Si corre, dunque, il rischio di avere un lavoro agile trasformato in un telelavoro di serie B, per usare una metafora calcistica: un’attività svolta da casa, senza, però, l’obbligo del datore di dotare il lavoratore in una postazione in remoto, occupandosi della sicurezza e fornendo gli strumenti informatici necessari. Di qui anche le parodie, che tanta ilarità hanno suscitato in rete, dello smart worker colto negli atteggiamenti più imbarazzanti, tipici dell’intimità domestica, sintomo di una totale impreparazione del lavoratore tradizionale alla digitalizzazione della prestazione. Di qui, pure, la difficoltà di organizzare un work-life balance sostenibile all’interno di un nucleo familiare anch’esso forzosamente digitalizzato, a causa della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Situazioni, del tutto nuove, di stress “famiglia-lavoro correlato”, rispetto alle quali neppure “the smartest worker in the room” può essere attrezzato. Soprattutto se il lavoro agile è prestato in modalità BYOD che poi nell’emergenza significa “speriamo abbiate almeno un dispositivo elettronico per ciascun componente della famiglia”.

Ma al di là di questi aspetti, già sufficientemente preoccupanti, ve ne è un altro che riguarda la readiness delle imprese e delle amministrazioni a trasformare, da un giorno all’altro, in forma agile la propria routine, almeno per quelle che non abbiano già adottato una smart organisation. La “smartification” della prestazione lavorativa necessita, infatti, a monte, dell’adozione di un approccio “di risultato” al lavoro subordinato che passa attraverso la predisposizione da parte del datore di lavoro di obiettivi il raggiungimento dei quali sia misurabile ex post. Si tratta di abbandonare la logica del controllo sulla prestazione per abbracciare quella della verifica dell’output. Di ripensare il concetto stesso di lavoro dipendente in termini di “autonomizzazione” e “responsabilizzazione” del lavoratore per la propria performance, non certo, come da qualcuno temuto, per quella complessiva dell’organizzazione materiale o immateriale nella quale è inserito.

Quante imprese e quante amministrazioni nel marzo scorso erano pronte a raccogliere una simile sfida? Poche, verrebbe da dire o, piuttosto, non abbastanza, vista l’immanità della sfida stessa che, infatti, ha costretto il legislatore ad elargire miliardi attraverso la Cassa integrazione, in considerazione o sul presupposto del fermo dell’attività lavorativa. Per le pubbliche amministrazioni la sfida è stata, se possibile, ancora più grande, dato che il legislatore ha proclamato il lavoro agile quale modalità ordinaria di svolgimento della prestazione (art. 87 l. n. 27 del 2020), con ciò intendendo che, per la durata dello stato di emergenza, la presenza dei dipendenti negli uffici e i loro contatti diretti con il pubblico fossero ridotti al minimo indispensabile. Questo approccio ha funzionato durante il lock down, nel quale le attività produttive si sono quasi tutte fermate.

Grandi preoccupazioni desta, invece, la Fase 2, nella quale quelle attività sono riprese e necessitano di un supporto pieno da parte delle pubbliche amministrazioni. Si tratta di preoccupazioni apparentemente condivise dallo stesso legislatore nel momento in cui, con il Decreto Rilancio (n. 34 del 2020), dispone che, al fine di salvaguardare la continuità della propria azione e la celere conclusione dei procedimenti, le amministrazioni si adeguano alle esigenze della progressiva riapertura di tutti gli uffici pubblici e a quelle dei cittadini e delle imprese connesse al graduale riavvio delle attività produttive e commerciali, organizzando il lavoro dei propri dipendenti e l’erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell’orario di lavoro, rivedendone l’articolazione giornaliera e settimanale, introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l’utenza. Insomma, non pare che il legislatore riponga grande fiducia nella sua stessa proclamazione del lavoro agile come forma ordinaria dell’attività amministrativa.

Il rischio che si corre è, quindi, quello di sprecare una grande occasione per trasformare una crisi in opportunità ovvero di passare da una sperimentazione “spensierata” del lavoro agile ad un suo utilizzo consapevole che ne sfrutti tutte le potenzialità di strumento organizzativo attraverso il quale rendere l’amministrazione di risultato una realtà concreta per il cittadino utente.

Anche per le imprese la fase emergenziale dovrebbe aver evidenziato i benefici di una interpretazione del concetto di subordinazione in termini di “autonomizzazione” e responsabilizzazione, tale da consentire di utilizzare il lavoro agile sia in modalità blended che esclusiva, di modo da portesi adattare a fenomeni estremi, come la pandemia, senza dover rallentare o bloccare la propria operatività, affidando allo Stato la propria sopravvivenza.

Solo in questo modo si potrà evitare che il lavoro agile diventi una prigione per il lavoratore, una chimera per l’impresa e una finzione per l’amministrazione. Se così fosse, infatti, in emergenza, il primo sarà sopraffatto dallo stress famiglia-lavoro correlato, la seconda sarà costretta a ricorrere alla Cassa integrazione, la terza si inabisserà, continuando a produrre costi senza fornire servizi.

All’opposto, un’organizzazione pronta al lavoro agile, come si è dimostrata, ad esempio, l’università, potrà continuare a svolgere la propria azione di utilità privata o pubblica, giustificando così, appieno, la remunerazione dei propri dipendenti.

L'autore

Edoardo Ales è professore presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss.  


Newsletter