Reclutare continuamente e in maniera centralizzata. Ecco come modernizzare i concorsi pubblici

11 giugno 2020
Editoriale Focus Ripresa
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Il decreto-legge “rilancio” (n. 34 del 2020) contiene, anche se solo “in via sperimentale” per il 2020, alcune ragionevoli previsioni sullo svolgimento dei concorsi pubblici: in sintesi, essi potranno svolgersi presso sedi decentrate e attraverso l’utilizzo di tecnologia digitale. Alcune delle innovazioni previste erano probabilmente già possibili, ma per varie ragioni le amministrazioni pubbliche tendono a discostarsi il meno possibile dalle prassi consolidate. In materia di concorsi pubblici, altre norme – altrettanto ragionevoli, altrettanto provvisorie e altrettanto relativamente necessarie – erano state introdotte, nel 2013, nel 2016 e nel 2019. Evidentemente il legislatore si rende conto del funzionamento insoddisfacente dei concorsi, ma non riesce a riformarli in modo complessivo e definitivo. È un vero peccato, perché nei prossimi anni andranno in pensione, e dovranno essere rimpiazzati, circa mezzo milione di dipendenti pubblici, a cui se ne aggiungerebbero altri 250.000 se si volesse e potesse colmare i vuoti di organico delle amministrazioni. Può essere utile, allora, esaminare brevemente alcune possibili misure di modernizzazione dei concorsi pubblici.

Bisogna innanzitutto considerare ciò che succede prima del concorso, sia alle amministrazioni, sia ai candidati. Le prime devono accertare il proprio fabbisogno, programmare le assunzioni e ottenere l’autorizzazione a bandire il concorso. Se si aggiungono i tempi di svolgimento del concorso, servono mediamente un paio d’anni. Che cosa farebbe qualsiasi grande datore di lavoro, che ogni anno sapesse di dover assumere decine di migliaia di dipendenti? Ovviamente predisporrebbe un sistema di reclutamento continuo, da cui attingere man mano che si liberano i posti. Nell’amministrazione italiana, invece, si aspetta che il posto si liberi per cominciare la trafila, sicché spesso il dipendente arriva quando non ce ne è più bisogno o le esigenze sono cambiate.

Veniamo ai candidati. Ci si può preparare ai concorsi pubblici stando chiusi a casa per anni a studiare, oppure facendo esperienze lavorative. Il modo in cui si svolgono i concorsi pubblici privilegia solo il primo metodo, sicché i concorsi vengono vinti non dai candidati migliori o più adatti ai relativi posti, ma – nella migliore delle ipotesi – da quelli che, avendone il tempo, hanno studiato di più. Ciò, tra l’altro avvantaggia coloro che possono fare a meno di lavorare, con sacrificio della parità di accesso, che è uno dei princìpi su cui si basa la regola del concorso. Inoltre, candidati brillanti che hanno già un’occupazione, magari nel settore privato, sono scoraggiati dal partecipare.

Perché l’incontro tra amministrazioni e candidati funzioni, occorre poi che il numero dei candidati sia adeguato. Ciò non avviene se i concorsi sono troppo frammentati: se in una città ci sono cento posti liberi per profili analoghi, è bene che ci sia un unico concorso da cento posti, non cento concorsi da un posto. Il rimedio alla parcellizzazione è la centralizzazione dei concorsi, promossa un po’ timidamente da molte delle norme citate: se i concorsi sono gestiti non dalle singole amministrazioni, ma da uffici unici, se ne guadagna in termini di regolarità, imparzialità, ed economie di scala.

D’altra parte, una vera selezione è impossibile anche se i candidati sono troppi: selezionare, in pochi giorni, i migliori tra decine di migliaia di candidati è impossibile. Di conseguenza, si procede spesso con preselezioni, che eliminano in modo sbrigativo (con prove rozzamente mnemoniche) un buon novanta per cento dei candidati.

Come affrontare allora i grandi numeri? Bisogna superare l’idea che il concorso debba consistere in pochi giorni di prove ordaliche. La valutazione può ben essere spacchettata in diversi momenti, economizzando le prove concorsuali e distribuendole nel tempo. Nella maggior parte dei concorsi pubblici c’è una prova di diritto amministrativo: perché mai un candidato, che partecipa a dieci concorsi, deve sostenere dieci prove della stessa materia? Il diritto amministrativo (come l’economia politica, la statistica, l’inglese e l’informatica) non cambia da un’amministrazione all’altra. Non sarebbe preferibile accertare una sola volta, seriamente, la sua preparazione, consentendogli di utilizzare la valutazione ottenuta per un anno o due? La gestione del singolo concorso sarebbe più semplice, si potrebbero introdurre valutazioni non mnemoniche (magari con periodi di prova) e un numero elevato di candidati non impedirebbe un reale confronto. Certo, si tratterebbe di esternalizzare una parte della valutazione, affidandola per esempio alle università, ma ciò già avviene, e non solo attraverso il (necessario) valore legale dei titoli di studio: non sono forse soggetti privati quelli che attestano il livello di conoscenza delle lingue straniere? E non sono istituzioni spesso private, di qualità molto varia, quelle che erogano tanti corsi di formazione, spesso di dubbia utilità, che i candidati si premurano di inserire nel proprio curriculum, costringendo le commissioni a valutarli come titoli?

Prove di esame devono comunque esserci: servono quindi commissioni esaminatrici. Attualmente, farne parte è una scelta irrazionale: è un lavoro lungo, noioso, con orari rigidi, non pagato, dal quale possono sorgere responsabilità. Alcune delle norme menzionate vanno, molto lentamente, nella direzione giusta, prevedendo una preselezione dei commissari, un compenso adeguato e la possibilità di lavorare a distanza, in luogo della tradizionale e inutile lettura collegiale delle prove. Quest’ultima possibilità c’è solo fino alla fine del 2020: ma come si può pensare, dopo la dose massiccia di tecnologia e di smart working di questi mesi, che dal 2021 le commissioni ricomincino a svolgere sedute-fiume in presenza?

Infine, le prove di esame non devono solo a misurare le conoscenze dei candidati, ma anche (o soprattutto) verificare la loro capacità di risolvere i problemi applicando quelle conoscenze, di lavorare in gruppo, di risolvere conflitti, di guidare e di essere guidati, di gestire imprevisti, di lavorare sotto stress, in definitiva di stare al mondo. Da questo punto di vista, si potrebbe seguire il buon esempio dato negli ultimi mesi dalla Scuola nazionale di amministrazione, alla quale la legge affida, come compito principale, il reclutamento e la formazione dei dirigenti dello Stato e degli enti pubblici nazionali. Nel bando relativo all’ultimo corso-concorso per l’accesso alla dirigenza, la Sna ha – nei limiti consentiti dalle norme vigenti – innovato le prove concorsuali, prevedendo tra l’altro che una delle prove consistesse nella redazione di un elaborato, sulla base di un dossier.

Quello della Sna è un esempio virtuoso anche perché il corso-concorso è un felice connubio di reclutamento e formazione: gli allievi seguono un corso e dal loro rendimento dipende la scelta della destinazione finale. Se il corso si svolge in moto intelligente – come avvenuto in quello appena concluso – è un ottimo modo per rendere efficienti sia il reclutamento, sia la formazione. È un modello che dovrebbe essere tenuto in considerazione anche dopo il concorso, ai fini della progressione in carriera: gli esami non dovrebbero finire mai e la formazione dovrebbe essere continua, soprattutto in un’epoca in cui funzioni e modalità di lavoro cambiano continuamente. Purtroppo, invece, sia gli esami sia la formazione tendono a finire subito dopo il concorso.

L'autore

Professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di giurisprudenza della Luiss Guido Carli


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