Legislazione omnibus: le conseguenze di un sistema politico frammentato
22 giugno 2020
Il decreto-legge c.d. “rilancio” (n. 34 del 19 maggio 2020) si compone di 266 articoli e 7 allegati, per un totale di 260 pagine di Gazzetta Ufficiale e, complessivamente, ben oltre 100.000 parole. Questi dati dimensionali sono certamente indicativi, ma ancor più significative sono la latitudine e la varietà dei contenuti, che spaziano dal fisco all’organizzazione amministrativa, dal turismo all’editoria, dai trasporti al reclutamento universitario. Insomma: misure relative a numerosissimi settori produttivi, affiancate da ulteriori interventi di riorganizzazione amministrativa.
Sarebbe, tuttavia, errato ricondurre una simile eterogeneità di contenuti soltanto alla (pur eccezionale) contingenza che stiamo vivendo, caratterizzata in maniera determinante dall’emergenza sanitaria e sociale e, dunque, dalla necessità di una risposta rapida e ad ampio spettro. Al contrario, questo provvedimento presenta notevoli tratti di continuità rispetto a tendenze già presenti nei processi di normazione in Italia e ben note da tempo. Ci si riferisce non soltanto al protagonismo della decretazione d’urgenza (evidente ormai da qualche decennio e che testimonia uno spostamento probabilmente irreversibile del baricentro decisionale dal Parlamento al Governo), ma soprattutto – appunto – alla grande eterogeneità interna ai singoli provvedimenti normativi, spesso accentuata ulteriormente nel corso del procedimento parlamentare di conversione.
Sempre più spesso, intorno a una generica esigenza della collettività o di specifici settori produttivi (la “competitività”, lo “sviluppo”) nascono provvedimenti nei quali vengono riversate le misure più varie, tenute insieme non tanto da una reale coerenza con l’obiettivo generale del provvedimento, quanto dalla necessità di coinvolgere tutte le parti politiche in causa (e gli apparati amministrativi retrostanti). L’eterogeneità dei provvedimenti normativi non deve essere vista come una mera questione stilistica, indice soltanto di una cattiva qualità della legislazione: una normazione condotta anzitutto mediante provvedimenti omnibus è il portato di una serie di concause da rinvenirsi nel sistema politico e istituzionale, e comporta conseguenze procedurali e sostanziali di grande interesse e problematicità.
A monte di una produzione normativa omnibus vi è, anzitutto, un sistema politico frammentato, caratterizzato – in ogni stagione politica – da governi retti da coalizioni ampie ed eterogenee, poco coese sia nella base parlamentare che nell’azione interna al Governo. Non a caso, la presenza di provvedimenti omnibus è una costante non solo dei governi di coalizione “post-elettorale” di questa legislatura, ma anche del periodo precedente, con un sistema elettorale che richiedeva la formazione delle coalizioni prima del voto.
Da tempo, insomma, la nostra legislazione procede mediante veicoli amplissimi e disarticolati, fatti da parti assai poco coerenti le une con le altre. Ciò non è altro che il riflesso della costante fragilità degli assetti politici, che necessitano di strumenti in grado di tenere insieme i pezzi di maggioranze così frammentate. Il ricorso alla questione di fiducia, che permette il voto in blocco dell’intero provvedimento monstre, rappresenta non solo il modo per giungere alla sua approvazione vincendo così l’ostruzionismo dell’opposizione. Soprattutto, costituisce l’unica via attraverso cui ciascuna componente della maggioranza possa “riconoscersi” in una sezione del provvedimento e, dunque, sostenerlo, unendo così i propri sforzi a quelli degli alleati (interessati magari a parti ulteriori dell’atto), garantendo così la continuità della coalizione e la sopravvivenza del governo.
Non solo. La natura omnibus di un progetto di legge comporta una serie di conseguenze nella sua gestione parlamentare che non possono essere ignorate. In particolare, la concentrazione in un unico provvedimento di una serie di oggetti solo assai latamente collegati gli uni agli altri comporta un esame in commissione di tipo finalistico e, per massima parte, non focalizzato sul merito della decisione. Una volta incardinato l’iter in sede referente presso commissioni aventi competenze “orizzontali” (tipicamente: le commissioni bilancio o le commissioni affari costituzionali), le commissioni settoriali vedono sensibilmente ridotta la loro possibilità di incidere sul testo. Di conseguenza, si perde la possibilità di un efficace coordinamento delle politiche di settore, che diventano sempre più episodiche e legate a condizioni generali di contesto.
È arduo immaginare antidoti efficaci all’avanzata prepotente dei provvedimenti omnibus.
La Corte costituzionale ha avviato, ormai da oltre un decennio, una profonda rimeditazione dei limiti alla decretazione d’urgenza, non senza qualche difficoltà nel maneggiare un concetto sfuggente e indeterminato come quello di “omogeneità”. In particolare, a partire dalla sentenza n. 22 del 2012, ha elevato i limiti al decreto-legge fissati dalla legge 400 del 1988 (tra i quali, appunto, l’omogeneità del contenuto) a “esplicitazione della ratio implicita” nell’art. 77 Cost., estendendoli poi anche alla legge di conversione con la successiva sentenza n. 32 del 2014. Ancor prima, il Presidente della Repubblica aveva fatto sentire la propria voce in sede di rinvio alla Camere delle leggi di conversione eterogenee, dettando un indirizzo al quale la Corte costituzionale si è poi allineata.
Le derive cui sta giungendo l’eterogeneità della legislazione, e della decretazione d’urgenza in particolare, sembrano creare una situazione non dissimile da ciò che si era verificato all’inizio degli anni 90, quando l’abuso della reiterazione dei decreti-legge rappresentava il principale veicolo di creazione del diritto in Italia. Per superare quella impasse fu necessaria una ampia collaborazione (ancorché informale) tra Corte costituzionale, Governo e Presidente della Repubblica. E la positiva riuscita dell’operazione fu agevolata dal particolare momento di rinnovamento del sistema politico che, dopo le “legislature della transizione”, sembrava avviarsi verso un funzionamento più linearmente maggioritario, per di più in un clima (nel 1996) di apertura verso grandi riforme costituzionali, condivise tra le principali parti politiche.
Se questi furono, allora, i presupposti per l’abbandono di pratiche legislative disfunzionali, le condizioni del sistema politico attuale non lasciano ben sperare, nonostante da parte della Corte costituzionale giungano ripetuti inviti al “dialogo” (si v., in proposito, la più recente relazione sull’attività della Corte nel 2019 della Presidente Cartabia, con esplicito richiamo alla “collaborazione istituzionale tra Corte e legislatore”: p. 7 s). L’esito del referendum costituzionale del 2016 ha sancito, almeno nel medio periodo, il tramonto di ipotesi di “grande riforma”. E il clima tra le principali forze politiche, una volta superate le fasi più drammatiche dell’emergenza sanitaria, è tornato ad essere assai turbolento. L’impressione è che si permarrà in una situazione di precarietà e perenne emergenza almeno fino al prossimo grande appuntamento istituzionale, ossia l’elezione del Presidente della Repubblica nei primi mesi del 2022. Prima di allora, in assenza di uno shock significativo del sistema politico, la legislazione omnibus continuerà probabilmente a costituire il principale veicolo di normazione, in quanto strumento di perpetuazione di un sistema politico debole.
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