La nuova era dell’Università digitale. Un’occasione da non perdere
25 giugno 2020
Dopo anni ricchi di incertezze, la formazione accademica ha l’occasione di essere inserita in un progetto più ampio e articolato: la rivoluzione digitale derivata per filiazione diretta dal lockdown rappresenta un’opportunità da cogliere per il post-pandemia. Dopo questa esperienza, e stante la necessità di affrontare il prossimo semestre in sicurezza, le università stanno implementando o financo sviluppando skills digitali, mostrando i vantaggi dell’apertura di spazi innovativi che favoriscano dialogo, confronto e cooperazione tra docenti e discenti, cittadini e strutture.
Pur emerso nell’ambito del distanziamento sociale, l’insegnamento a distanza può essere utile a studenti con disabilità, studenti lavoratori, a chi ha difficoltà varie a frequentare le aule: la tecnologia diventa strumento rilevante per avvicinare all’istruzione soggetti culturalmente lontani e a rischio di esclusione sociale, nella consapevolezza del ruolo giocato oggi dall’alfabetismo tecnologico all’interno del sistema sociale. Se l’impatto di una data tecnologia dipende in maniera cruciale dal costrutto sociale che di essa è fatto, le innovazioni sviluppano performativamente e conformativamente nuove pratiche, da declinare a seconda delle esigenze e dei valori locali.
Un monito è, tuttavia, opportuno: se l’apprendimento a distanza ha dimostrato di essere una risorsa straordinaria in un momento di necessità, apprendimento a distanza e in presenza non sono intercambiabili.
Sappiamo bene che Università non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni o sudditanza a motori di ricerca: è socialità in senso orizzontale (tra allievi) e verticale (con i docenti), crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile. Tale profilo è in linea con l’esigenza di non fare della formazione un privilegio elitario ma piuttosto un diritto sociale della collettività.
Se la crisi epidemiologica ha avuto il merito di anticipare alcune risposte attese da tempo (finanziamenti alla ricerca, alla scuola, all’edilizia scolastica, all’innovazione), è necessario riflettere su almeno cinque fattori che ancora frenano l’efficiente e piena integrazione tra innovazione della didattica e modalità di istruzione tradizionale.
Il primo fattore è relativo al “tempo” dell’insegnamento, ossia alla consapevolezza in merito al fatto che l’utilizzo del distance learning è certamente più time consuming rispetto alla didattica in aula: richiede più ore da dedicare alla pianificazione e al proficuo svolgimento online delle lezioni, a scapito di altre attività che caratterizzano la ricerca (scrittura di paper, convegnistica, ecc.).
Emerge, poi, una sorta di avversione “compulsiva” da parte di alcuni colleghi alle lezioni in streaming e on demand, in considerazione del fatto che lezioni e materiale didattico vanno ripensati in funzione della fruizione digitale, rimanendo disponibili in futuro: l’istruzione digitale richiede maggior rigore e minore disinvoltura rispetto ai tradizionali canoni dell’insegnamento.
A questo si collega un terzo fattore, relativo alla difficoltà dei docenti di ripensare il proprio metodo didattico e di far uso di modalità alternative alle classiche lezioni di tipo teorico-concettuale. Si tratta certamente di un tema culturale, connesso a quello sforzo di aggiornamento e di formazione permanente che ogni docente deve compiere per agire secondo traiettorie diverse da quelle tradizionali.
Il quarto fattore ha natura prettamente organizzativa: le università prima del lock-down non prevedevano, per la maggior parte, modalità alternative alla didattica on-site. Nel migliore dei casi (spesso su richiesta dei delegati dei rettori all’e-learning) si sono dotate di piattaforme, lasciando tuttavia libertà ai docenti di utilizzarle, senza forme di coordinamento.
Da ultimo, un ruolo centrale è giocato dal fattore giuridico-regolatorio. Nell’attuale quadro normativo, il MIUR sta riscontrando numerose difficoltà nella regolamentazione su ampia scala dell’erogazione dei corsi per lo meno in forma “blended”: ciò causerà una disomogenea erogazione dei corsi universitari e rischia di penalizzare al contempo docenti e studenti.
Nondimeno, e a fronte di questi fattori di complessità, ritengo che la maggiore (oggi necessaria) digitalizzazione del percorso universitario riguardi gli studenti a basso reddito i quali – in presenza di capacità e merito – potranno ambire ad entrare in università prestigiose beneficiando dell’abbattimento dei costi relativi a spese di viaggio, vitto e alloggio. Appare altresì ipotizzabile l’apertura dei suddetti atenei (specie stranieri) ad un numero notevolmente superiore di studenti, grazie all’utilizzo di “mega” platform learning (e, dunque, convenzioni da stipulare con le compagnie Big Tech come Apple o Google). Del resto, la necessità di garantire un maggiore sostegno economico alle famiglie a medio-basso reddito – o, in altri termini, una riduzione dei costi da sostenere per l’accesso agli studi – rappresenta un fattore essenziale per mantenere la competitività internazionale del nostro sistema di ricerca; aspetto, questo, sottolineato a più riprese dalla task force guidata da Vittorio Colao nell’elaborazione di un programma (il c.d. “Piano Colao”) per la fase 3 della pandemia.
A livello globale, dunque, le innovazioni introdotte dal lockdown possono rappresentare un’inaspettata occasione di accesso ad un livello di formazione più qualificato e all’ottenimento di un marchio di eccellenza.
Inoltre, si prospetta il progressivo passaggio dall’attuale approccio ai corsi universitari “tre più due” – in cui la triennale viene tendenzialmente svolta nella propria città puntando sulla qualità della laurea specialistica – ad una fase nuova, che prenda in considerazione la possibilità per gli studenti di frequentare università fuori sede (anche straniere) sin dalla triennale. Gli effetti di questo mutamento saranno dirompenti per quegli atenei che non potranno o non vorranno investire sulla revisione della propria offerta formativa.
E in una realtà come quella italiana, come reagire? Per arginare i rischi di una riduzione di iscritti, l’offerta delle università medie dovrà rinnovarsi e puntare anche su elementi collaterali all’insegnamento.
Ciò è particolarmente problematico nel nostro paese, memore di un periodo di eccessiva proliferazione di strutture sorte in modo capillare sul territorio nazionale: si delinea uno scenario che rischia di ricondurre le università di minore preminenza al ruolo di realtà del territorio che rischiano di sopravvivere grazie al localismo. Un aspetto, questo, ampiamente sottolineato dal Piano Colao il quale nel capitolo dedicato a scuola università e ricerca evidenzia come i divari territoriali nel percorso dell’istruzione rappresentino il maggiore ostacolo a processi di ripensamento di carattere generale.
Appare oggi più che mai essenziale il monito a non subire il cambiamento, ma a declinarlo in funzione di scopi socialmente desiderabili. Trasformiamo la crisi, modificando comportamenti organizzativi, prodotti e processi universitari, ma non facciamolo solo per rispondere alle esigenze immediate. Da tempo l’università ambisce a formare studenti in grado non solo di conoscere ma anche di comprendere le ragioni alla base della realtà economico sociale e delle vicende istituzionali: forse, ricordando l’insegnamento di Plutarco, secondo il quale “la mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere” sarà possibile individuare la corretta via per affrontare questo momento di difficoltà.
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