Davvero la globalizzazione sarà la vittima illustre del Covid-19?
26 giugno 2020
Secondo molti, vittima illustre della pandemia da Covid-19 sarà il processo di globalizzazione. Qualche settimana fa, The Economist intitolava domandandosi, appunto, se il Covid abbia ucciso la globalizzazione (“Has Covid-19 killed globalization?”, The Economist, 14 maggio 2020).
Il periodo storico che stiamo vivendo non ha precedenti in epoca moderna. In un contesto internazionale che vedeva diverse economie (tra cui l’Italia) ancora ben al di sotto dei livelli di crescita precedenti la crisi del 2007-2008, la pandemia da Covid-19 ha imposto un uovo calo, importante, di domanda accompagnato, questa volta, anche da un calo improvviso e consistente dell’offerta: le industrie hanno chiuso, i negozi hanno chiuso, gli uffici hanno chiuso. Circa il 90% della popolazione mondiale vive in paesi i cui confini sono ancora quasi completamente chiusi. Per il commercio mondiale nel suo complesso, si prevedono riduzioni fino al 30% su base d’anno: un numero mai visto prima.
Che cosa ne sarà del processo di globalizzazione? Dobbiamo immaginare un rallentamento temporaneo o c’è da attendersi una definitiva inversione di tendenza? Per provare a rispondere, è necessario isolare le caratteristiche strutturali del processo di globalizzazione in atto.
Sebbene il concetto faccia riferimento ad un fenomeno senz’altro riscontrabile anche in epoche lontane (si pensi all’Impero Romano, che nella sua massima estensione interessava ben 53 dei 196 paesi attualmente riconosciuti a livello internazionale), l’utilizzo del termine globalizzazione con riferimento ad un complesso insieme di fenomeni, tra loro interconnessi, che investono la sfera della integrazione economica, sociale e culturale su scala mondiale, è legato ai tempi moderni.
Gli indicatori economici di globalizzazione fanno di solito riferimento ai flussi internazionali di beni e servizi (commercio estero), capitale (in particolare gli investimenti diretti esteri) e lavoro (migrazione). L’analisi storica di tali indicatori rivela un processo tutt’altro che costante. Negli ultimi due secoli sono infatti individuabili tre fasi, o “ondate”, di globalizzazione: la prima coincide con la fine del XIX secolo ed è seguita da una fase di deglobalizzazione intercorsa tra le due guerre mondiali; la seconda inizia nel secondo dopoguerra e termina con gli anni ’80; la terza può esser fatta partire dal 1980.
La prima ondata affonda le radici nella Rivoluzione Industriale, quando l’innovazione tecnologica determinò una decisa riduzione dei costi e dei tempi di trasporto di merci, tecnologia, capitale e lavoro, da un lato, e un processo di sviluppo industriale che dal Regno Unito si diffuse velocemente nel resto dell’Europa, prima, e negli Stati Uniti, poi, dall’altro. A fine ottocento, il mondo aveva già assunto la connotazione attuale: da un lato i paesi ad alto PIL pro capite (la Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith), che oggi definiamo “sviluppati” (Europa, Nord America e paesi OCSE in generale), dall’altro i paesi ai quali oggi ci riferiamo come “emergenti” o “in via di sviluppo“. All’inizio del ‘900, gli Stati Uniti erano già il paese benchmark dal punto di vista della ricchezza e dell’avanzamento tecnologico. Identificando, senza perdita di generalità, come “Nord” il primo gruppo e “Sud” il secondo, la fase di globalizzazione fino alla prima guerra mondiale vede la progressiva industrializzazione del Nord, accompagnata da una deindustrializzazione nel Sud. Prima del XIX secolo, il settore manifatturiero era fiorente in Cina ed in alcune parti dell’India: le produzioni orientali dell’industria tessile cotoniera e della seta, ma anche la porcellana, erano esportate in Europa in cambio di argento, in quanto i prodotti europei erano di qualità troppo bassa per i mercati orientali. Alla fine della prima ondata di globalizzazione, invece, la maggior parte del consumo tessile orientale era importato dall’Europa (a prezzi più bassi rispetto alla produzione locale). L’attuale struttura del commercio e della distribuzione della ricchezza a livello mondiale risale in gran parte a quel periodo.
Tra il 1914 e il 1945 si sono verificate due guerre mondiali ed una crisi economica di portata internazionale. L’effetto complessivo sul grado di apertura dei mercati e sull’integrazione delle economie nazionali fu impressionante. Nel 1930, lo Smoot-Hawley Tariff Act portò i dazi medi USA a livelli storici e provocò la reazione protezionista di altri Paesi, costretti a trincerarsi dietro nuove barriere tariffarie e blocchi commerciali. Una delle lezioni principali tratte dall’esperienza tra le due guerre fu che la cooperazione politica internazionale e la pace dipendevano dalla cooperazione economica internazionale. Uno dei fattori di crescita del commercio internazionale del XX secolo fu dunque la cooperazione economica internazionale: il Sistema di Bretton Woods; il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT).
La ripresa economica del secondo dopoguerra fu abbinata ad una nuova ondata di globalizzazione. Il mondo divenne ancor più integrato in termini di costi e tempi di trasporto di quanto non lo fosse all’inizio del ‘900, ma questa volta fu la caduta dei costi di comunicazione a dominare la scena: il costo di una telefonata da New York a Londra scese approssimativamente da 250 dollari nel 1930 a 50 dollari nel 1960. Sarebbe poi sceso fino a pochi centesimi di dollaro, in tempi recenti, e pressoché zero centesimi, in tempi recentissimi. La conseguenza di ciò è uno straordinario impulso alla circolazione delle idee e dell’informazione, che si traduce in una crescita esponenziale delle attività legate al settore dei servizi nei paesi più sviluppati: la seconda ondata globalizzazione vede la terziarizzazione del Nord e la industrializzazione del Sud.
Dagli anni ’80, questo “travaso” di attività industriale dal Nord verso il Sud si abbina ad un cambiamento radicale dell’organizzazione internazionale dei processi produttivi. La proseguita riduzione dei costi di trasporto e comunicazione, da un lato, e l’atteggiamento crescentemente liberale nei confronti del movimento internazionale di merci e fattori produttivi, dall’altro, rendono infatti sempre più conveniente frazionare il processo produttivo in senso “verticale” scegliendo, per ogni fase, la localizzazione in cui la produzione risulta più conveniente. Ad esempio, i paesi a basso costo del lavoro, per le attività più “labour-intensive”.
La globalizzazione entra così, senza soluzione di continuità, in una terza era, quella delle Catene Globali del Valore (o “Global Value Chains” – GVC). Due aspetti delle GVC vanno sottolineati: primo, esse creano commercio internazionale; secondo, il loro sviluppo è intimamente connesso alla diffusione di nuove tecnologie. A differenza delle precedenti ondate di globalizzazione, in cui il processo di industrializzazione andava di pari passo con la diffusione della tecnologia tra paesi, le imprese più produttive al mondo (spesso, ma non sempre, imprese multinazionali) sono oggi localizzate nei paesi più diversi. Non avendo, nell’arco di circa quarant’anni, mostrato segno alcuno di cedimento, questa “terza rivoluzione industriale”, come da qualcuno è stata definita, sembrava essere il nuovo paradigma di riferimento del sistema produttivo mondiale.
Oggi, invece, ci accorgiamo che le GVC ed il commercio internazionale sono in crisi. Lo stop è sotto gli occhi di tutti ma è però ancora presto per dire se si tatti di un rallentamento o dell’inizio di una nuova ondata di deglobalizzazione, simile a quella che avvenne tra le due guerre mondiali o anche diversa da quella.
Un aspetto, però, è certo: lo stop che osserviamo non è del tutto attribuibile alla crisi Covid-19. Il vento del separatismo e del protezionismo soffiava già da alcuni anni, in effetti dalla crisi del 2007-2008. Dopo il crollo avvenuto tra il 2008 ed il 2009 (il picco durante il cosiddetto “trade collapse” fu di circa il 10%), la crescita del commercio internazionale era molto rallentata rispetto ai decenni precedenti, così come la crescita degli investimenti diretti esteri. Gli Stati uniti, da sempre più protezionisti dei paesi europei ma gradualmente apertisi al commercio internazionale a partire dal dopoguerra, avevano già deciso di fare più che un passo indietro richiamando con insistenza gli investimenti in patria (cd. “backshoring” o “reshoring”). A gennaio, già prima della pandemia, The Economist parlava di processo di “slowbalization” (simboleggiato, in una bella copertina di Luca D’Urbino, da una chiocciola con il mondo dipinto sulla conchiglia). Perché questo rallentamento? Da dove nasce il rinnovato interesse per l’autonomia economica?
I costi e i benefici della globalizzazione non si distribuiscono omogeneamente tra le varie categorie sociali: nei paesi sviluppati, i processi di offshoring e la diffusione di nuove tecnologie degli ultimi decenni hanno avvantaggiato i lavoratori specializzati rispetto a quelli non specializzati (i colletti blu). In mancanza di adeguate politiche redistributive della ricchezza, l’innescarsi di correnti anti-globalizzazione è la risposta più prevedibile. Ad un certo punto, i costi sociali della globalizzazione iniziano a superare i benefici; quando ciò avviene, anche la politica economica diventa “no-global”: le tariffe sulle importazioni statunitensi sono attualmente al loro livello più alto dall’inizio degli anni ’90; le catene del valore USA-Cina si stanno gradualmente assottigliando; diversi paesi, tra i quali il Giappone, hanno incluso i sussidi al reshoring tra le misure di sostegno alla ripresa post-Covid.
A differenza di quanto si potrebbe pensare, le GVC sono molto più legate alla vicinanza geografica di quanto non lo sia il commercio internazionale: la maggior parte del valore aggiunto straniero nella produzione dei paesi tende infatti a provenire da paesi relativamente vicini (ad esempio, per l’Italia, da altri paesi UE). Questo potrebbe significare che non sarà tanto la tenuta o meno delle GVC a condizionare le sorti del processo di globalizzazione quanto piuttosto le scelte dei governi in termini di protezionismo commerciale; sebbene i due aspetti siano collegati.
Staremo a vedere. Se però i venti di autonomia si trasformeranno in burrasca, e se assisteremo ad un nuova ondata di deglobalizzazione, la pandemia da Covid non ne sarà unico, e neppure principale, responsabile. Ad uccidere (per parafrasare l’Economist) la globalizzazione, o a “congelarla” (magari per qualche decennio, chissà…), sarà stata la difficoltà che i governi incontrano nel gestire gli aspetti redistributivi di un fenomeno forse ancora troppo recente. Da questo punto di vista, la crisi Covid potrebbe rappresentare un laboratorio di politica economica di inestimabile valore.
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