Cosa ci insegna la pandemia. Il lavoro agile e il rapporto tra persone, tecnologie e processi
27 giugno 2020
La pandemia di Covid-19 ha costretto le organizzazioni a cambiare il proprio modo di lavorare. In particolare, per far fronte alla situazione di emergenza, le persone all’interno delle organizzazioni sono state chiamate ad affrontare una serie di cambiamenti e le relative problematiche, come ad esempio “allestire” gli uffici all’interno delle proprie abitazioni o acquisire dimestichezza con tecnologie che sino ad allora, sebbene disponibili, non erano mai state realmente utilizzate. Nei casi estremi di isolamento fisico (es. quarantena), la tecnologia si è configurata come l’unica interfaccia con il mondo esterno, sia quello professionale sia quello personale. Conseguentemente, e ora più che mai, la tecnologia è diventata progressivamente parte integrante della nostra vita.
L’interazione essere umano-tecnologia non è un tema particolarmente nuovo, indipendentemente dal fatto che con il termine essere umano ci si riferisca ai singoli individui piuttosto che a collettività organizzate come gruppi, squadre, imprese e altre organizzazioni, o intere comunità. Dal punto di vista accademico, le relazioni tra tecnologie, persone e processi sono state tradizionalmente studiate in maniera analitica attraverso “frecce e riquadri”, dove i riquadri rappresentano gli elementi in questione e le frecce esplicitano i rapporti di causalità tra questi intercorrenti, svelando al tempo stesso la potenziale predominanza di uno sugli altri. In effetti, la concezione delle organizzazioni e di altre entità sociali come “sistemi socio-tecnici” risale agli anni ‘60. Negli anni ‘90, la tecnologia sembrava avere un forte vantaggio sulle dinamiche umane, elevandosi ad “imperativo” capace di dare loro forma e rimodellare i processi aziendali (come, ad esempio, nel caso della reingegnerizzazione dei processi aziendali basata sulla tecnologia). Più recentemente, l’enfasi sulle risorse umane come detentori e portatori di conoscenza e la riscoperta della loro capacità decisionale ha aperto le porte alla possibile prevalenza degli individui (in qualità agenti) sugli strumenti. Secondo tale concezione, la tecnologia viene considerata (solamente) come un costrutto “socio-materiale” che acquisisce un senso soltanto nella misura in cui può essere utilizzato dagli individui e che, quindi, assume diversi significati in base agli utenti (come nel caso di e-mail, piattaforme di social network, telefoni cellulari). Tuttavia, esistono molteplici e diverse interpretazioni alternative. Ad esempio, piuttosto che propendere verso l’estremo della dominazione incondizionata della tecnologia sull’organizzazione o accettare quello diametralmente opposto che vede il contesto organizzativo quale creatore dell’uso (e del senso) della tecnologia, è possibile ipotizzare una relazione osmotica tra i due elementi, dalla cui interazione dinamica prendono forma i processi organizzativi. Tale condizione di osmosi non si verifica sempre spontaneamente e potrebbe dover essere gestita dai leader delle organizzazioni. In questo caso, lo sviluppo dei processi organizzativi differirà radicalmente in base al fatto che i leader adottino un approccio “top-down” o “bottom-up” nel relativo processo decisionale.
Secondo Terri Griffith[1] la pandemia di Covid-19 ha offerto una dimostrazione esemplare di come il lavoro (inteso come l’insieme dei processi organizzativi eseguiti) debba emergere dalla base dell’organizzazione; per illustrare questa nozione fa riferimento al suo modello “Thinking in 5T” (Target, Tools, Techniques, Talent, Times). La sua argomentazione gravita attorno al fatto che la pandemia ha costretto le persone a livello globale a spostarsi “verso il lavoro da casa attraverso una transizione che si è completata nell’arco di giorni, non mesi o anni come sarebbe avvenuto in tempi normali”. Peraltro, tale transizione non è stata un passaggio al lavoro realmente “smart”. Come osserva Griffith: “quelle transizioni non erano perfette, dal momento che abbiamo iniziato a lavorare in ambienti non sempre tranquilli: abbiamo dovuto condividere i nostri uffici con la nostra famiglia, gli animali domestici, e tutto quanto accadeva intorno a noi come la scuola, i bambini […]”. Per poter essere realmente “smart”, il lavoro dovrebbe essere creato tenendo conto delle preoccupazioni evidenziate da Griffith: “Purtroppo […] abbiamo semplicemente cercato di replicare da casa ciò che eravamo abituati a fare in ufficio […]. Tendiamo a far questo perché siamo umani e, in quanto tali, non necessariamente apprezziamo il cambiamento; conseguentemente, preferiamo rimanere ancorati a quanto da noi giudicato soddisfacente. In altre parole, ci accontentiamo di ciò che abbiamo imparato all’inizio e diamo per assunto che sia il modo in cui dobbiamo andare avanti, o facciamo alcuni piccoli aggiustamenti perché possa essere considerato “good enough” e poter quindi continuare in quella medesima direzione”. La situazione del Covid-19 ci ha costretto a improvvisare il lavoro che era stato originariamente progettato in modo tradizionale dall’alto verso il basso (quindi attraverso task design, task allocation, task execution, task-related performance measurement). Secondo Terri Griffith, il Covid-19 può insegnarci che una volta definito il Target e perfezionati gli strumenti (Tools) e le Tecniche, il nostro Talento individuale può aiutarci a definire ciò che possiamo offrire al meglio e in quale Tempo (le lettere maiuscole sono utilizzate per segnalare gli elementi del “5T Framework”). Quindi, volendo riprendere le sue parole: “l’idea è che tutti noi dovremmo creare il nostro lavoro, cercando di negoziare e rinegoziare man mano che impariamo ad utilizzare sempre più queste tecniche diverse”.
In termini più generali, l’esperienza del lavoro a distanza forzato può essere funzionale alle organizzazioni nell’attività di brainstorming, innescando riflessioni su come la recente esperienza abbia messo in luce la necessità di adottare un approccio “bottom-up” nella progettazione dei posti di lavoro, in particolare nell’individuazione di quali processi e attività possono essere efficientemente supportati dalle tecnologie e quali invece risultano essere eseguibili al meglio in presenza.
Anche Marco Morelli[2] ha espresso il suo punto di vista sull’argomento. Riprendendo le sue parole, all’inizio della pandemia “l’immagine era molto sfocata e ciascuno di noi all’interno della propria organizzazione ha dovuto pensare a come poter rispondere ad un qualcosa che era praticamente fuori dai radar, cosa che per certi versi è stata utile per abbattere i muri e le recinzioni del modello organizzativo statico e tradizionale”. Nella sua analisi, Morelli sottolinea che tre elementi hanno caratterizzato la combinazione di tecnologia, persone e processi durante la pandemia:
1) la comunicazione interna, specialmente nelle grandi organizzazioni con migliaia di dipendenti che all’improvviso sono stati costretti a lavorare in un modo completamente diverso, utilizzando strumenti completamente diversi;
2) il coinvolgimento potenziale di milioni di clienti (client base) che, a loro volta, erano abituati a interagire con l’azienda in un modo totalmente diverso;
3) un nuovo modo di commercializzare e vendere prodotti o servizi. Questi tre fenomeni sono stati—e saranno, in misura sempre maggiore—gestiti in tre domini principali: il tempo, gli strumenti e le persone.
Il Covid-19 ha costretto i top manager a dover interagire con migliaia di interlocutori simultaneamente, invece che limitarsi ai soliti riporti di prima linea, attraverso mezzi per la trasmissione di messaggi standard e unici. In altre parole, è emersa la necessità di raggiungere tecnicamente le persone e di essere da queste compresi nonostante le variegate personalità e caratteristiche individuali. L’esposizione a interazioni forzate basate sulla tecnologia sembra aver fatto affiorare il lato umano delle organizzazioni; la necessità di raggiungere le persone e attivarne i comportamenti ha svelato la preponderanza di questo elemento rispetto agli altri. Nelle parole di Morelli, durante la pandemia di Covid-19, “[grazie alla tecnologia] stavamo lavorando da casa o da luoghi diversi, utilizzando strumenti diversi. Credo che la faccia umana della moneta tornerà molto presto in un modo piuttosto dirompente”.
In sintesi, sembrerebbe che il Covid-19 ci abbia aiutato a far luce sulla combinazione “Persone, tecnologie e processi”. Ciò che emerge non è una struttura lineare e ordinata composta da frecce e riquadri, ma piuttosto una combinazione di elementi osmotica e caleidoscopica.
Il presente contributo offre un’ulteriore riflessione sull’argomento trattato nella #Luiss.MasterClasses – People, Technology, Processes in the Pandemic Era (16 Giugno 2020, disponibile qui).
[1] Keith Beedie Chair in Innovation and Entrepreneurship presso la Simon Fraser University, Canada.
[2] Laureato Luiss, Professore a contratto e componente del Consiglio di Amministrazione Luiss; nel corso della sua carriera ha ricoperto ruoli apicali in importanti realtà del settore bancario tra i quali quello di Amministratore Delegato e Direttore Generale di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A; autore del libro Capi, Colleghi, Carriere. Questi sconosciuti, Gribaudo, 2020.
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