Effetto Keynes sul nuovo Patto di stabilità
8 luglio 2020
I cambiamenti generati dalla pandemia
Nonostante l’impatto devastante generato dalla pandemia, non mancano coloro che pensano che, una volta passata la nottata, tutto ritornerà come prima. Il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha ricordato pochi giorni fa che il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) “è stato solamente sospeso” e che in autunno si valuterà “come farlo ripartire”. Un’opinione poco realistica, se è vero che la pandemia sta determinando ovunque un aumento verticale del debito pubblico (nel 2020, 102 per cento in media del Pil europeo), debito che richiederà anni per essere riassorbito. Ma anche poco perspicace, se è vero che la pandemia sta avviando, attraverso la creazione di una capacità fiscale europea, un cambiamento del paradigma fiscale per il rilancio post-pandemico delle economie nazionali. La realtà obbliga al cambiamento, il modello con cui interpretarlo rimane, talora, quello vecchio. Vediamo meglio.
Un modello in crisi
Il vecchio modello (ispiratore del PSC) aveva costituito la risposta ai problemi sollevati dal compromesso politico istituzionalizzato nel Trattato di Maastricht del 1992. In quel compromesso, la Germania ottenne la centralizzazione della politica monetaria e la Francia la decentralizzazione della politica fiscale. Una sola moneta, 19 (oggi) politiche fiscali. Tuttavia, per evitare che le sovranità fiscali nazionali finissero per generare azzardo morale (un Paese spende più di ciò che potrebbe, trasferendo sugli altri Paesi l’onere di pagarne i debiti), fu deciso di introdurre regole molto rigide per contenere le politiche nazionali di bilancio. Il PSC è l’espressione di quelle regole (il deficit pubblico non può superare il 3 per cento e il debito pubblico il 60 per cento rispetto al Pil nazionale), cui si sono aggiunte ulteriori e complicate regole nel corso della crisi finanziaria del decennio scorso. Tale centralizzazione regolativa ha finito per accentuare la corresponsabilizzazione di un Paese nei confronti di tutti gli altri (tant’è che, nonostante i Trattati, nessun Paese è stato “autorizzato” a fallire, perché ciò avrebbe sconquassato anche gli altri). La magnitudine della crisi pandemica ha messo in radicale discussione un modello pensato per essere impermeabile al tempo e al contesto. Non può stupire che, pochi giorni fa, Niels Thygesen, il presidente dello European Fiscal Board (il comitato di consiglieri indipendenti della Commissione sulle questioni fiscali), abbia invitato alla cautela coloro che pensano di poter ritornare ad applicare le regole del PSC come nel passato. Un invito reiterato da esponenti della stessa Commissione, tra cui il nostro Paolo Gentiloni.
Ad ognuno il suo
Piuttosto, secondo Thygesen, occorrerà elaborare nuove regole “che assegnino limiti specifici di debito ad ognuno degli stati membri in relazione alle circostanze delle loro economie nazionali”. Gli effetti asimmetrici della pandemia rendono implausibile il ritorno ad un approccio centralistico basato su regole identiche per contesti nazionali diversi. Ciò significa, “liberi tutti”? Tutt’altro. Già nel settembre scorso, lo European Fiscal Board aveva presentato un Rapporto per la revisione del PSC, discusso anche su questo giornale da Massimo Bordignon (membro del Board). Secondo quel Rapporto, ad esempio, la sorveglianza europea sui bilanci nazionali dovrebbe riguardare la spesa nominale, dovrebbe consentire l’uso di quest’ultima in funzione anticiclica, dovrebbe valutare l’andamento della spesa su base almeno triennale. Non si proponeva di rinunciare alla convergenza tra le economie dell’Eurozona, ma di favorirla attraverso stimoli piuttosto che punizioni (ad esempio, il rispetto delle regole europee dovrebbe essere la condizione per accedere ai fondi strutturali europei). Naturalmente, la maggiore autonomia dei governi nazionali avrebbe portato con sé una loro maggiore responsabilizzazione (anche verso i mercati i finanziari). Bruxelles non poteva più essere usata come il capro espiatorio delle incapacità governative nazionali.
Keynes a Bruxelles
La pandemia ha non solo accelerato l’esigenza della riforma del PSC, ma ha creato un contesto radicalmente nuovo in cui collocarla. Con le decisioni che sono in discussione in questi giorni nel Consiglio europeo, Bruxelles non dovrà più limitarsi a controllare le politiche di bilancio nazionali, ma potrà condizionarle attraverso una sua autonoma politica di bilancio. “Next Generation EU”, con relative tasse europee, è il treno con cui John Maynard Keynes può arrivare a Bruxelles. Un arrivo, però, che non sarà privo di sfide (per i governi nazionali, il nostro in particolare). Attraverso un budget europeo basato su risorse proprie (e non su trasferimenti nazionali), Bruxelles potrà definire le sue autonome priorità di policy (digitalizzazione, riconversione ambientale, risparmio energetico, sostenibilità industriale, riqualificazione professionale), usandole per poi condizionare i Paesi europei. Per poter beneficiare sul piano nazionale dei fondi europei, i governi nazionali dovranno perseguire obiettivi nazionali congruenti con le priorità europee (negli Stati Uniti li chiamano grants-in-aid). Se i governi nazionali non lo faranno, perderanno quelle risorse. Il modello del doppio, ma distinto, bilancio spingerà verso una responsabilizzazione ulteriore delle capitali nazionali. Se un Paese non sa o non vuole usare le risorse per modernizzarsi, dovrà risponderne individualmente (ai propri cittadini, oltre che ai mercati finanziari). In questa prospettiva, è del tutto incomprensibile la discussione, in corso in Italia, sul riscorso o meno ai fondi del Meccanismo europeo di stabilità. Si discute di clausole che non esistono, ma non si discute se quei fondi siano o meno necessari per rafforzare il nostro sistema sanitario. Tant’è che, dopo sei mesi di pandemia, non sappiamo ancora quali siano i punti deboli di quel sistema. Né ancora sappiamo quali saranno le riforme nazionali, coerenti con la strategia europea, che i fondi di “Next Generation EU” dovrebbero sostenere.
Insomma, dopo la pandemia, è difficile ritornare indietro, ma non è chiaro come andare avanti. L’Italia ha aiutato a fare arrivare Keynes a Bruxelles, ma non è preparata a gestirne le conseguenze. Occorre rimediare prima possibile. Oggi, più che mai, il tempo è una risorsa scarsa.
Questo articolo è apparso sul Sole 24 Ore il 5 luglio 2020. Riprodotto per gentile concessione.
Newsletter
Articoli correlati
Lost in Translation? La sinistra europea alla ricerca di se stessa
6 settembre 2021
Nel panorama politico dell’Europa occidentale degli ultimi anni è generalmente accettato che i partiti di sinistra, e in particolare i partiti socialdemocratici, abbiano sperimentato un inarrestabile declino elettorale. Giornalisti ed esperti hanno evidenziato il drammatico crollo recente dei partiti socialdemocratici in diversi paesi. Vediamo le cause.
Regimi fiscali e visioni dell’Unione euopea
4 agosto 2021
Dopo l’estate inizierà la discussione sul futuro del Patto di stabilità e crescita (PSC), il perno del sistema fiscale dell’Eurozona momentaneamente sospeso. Già ora, però, gli schieramenti si stanno formando. L’Eurozona ha bisogno di un framework fiscale per funzionare, ma la sua natura è oggetto di divisioni. Vediamo perché.
L’Europa apra le porte solo alle vere democrazie
27 luglio 2021
Non era mai sparito dall’agenda, ma l’obiettivo dell’ulteriore allargamento dell’Unione europea (Ue) è stato recentemente riproposto. Come valutare le pressioni verso un nuovo allargamento? La visione internazionalistica è in contrasto con la realtà istituzionale dell’Ue? Ecco un’analisi di Sergio Fabbrini.
L’Italia è leader dell’antiriciclaggio e merita la nuova Agenzia europea
17 giugno 2021
La proposta, formulata nei giorni scorsi dal Presidente dell’ABI Patuelli, di insediare in Italia l’Agenzia europea per l’antiriciclaggio appare basata su oggettive ragioni di merito. Il nostro Paese può infatti vantare una delle prime e più articolate normative in materia di prevenzione e repressione di questa gravissima forma di reato.