La pandemia spiegata ai populisti. Perché piegare la realtà alla comunicazione politica è pericoloso
23 luglio 2020
La democrazia più forte con risultati catastrofici
La pandemia che resiste a ogni controllo negli Stati Uniti ci dice che qualcosa di fondamentale non funziona nella democrazia più forte, con la costituzione più antica e l’economia più prospera del mondo. Eppure, la spesa degli americani per la sanità, sommando quella privata a quella pubblica, ha pochi paragoni. Gli organi di prevenzione delle catastrofi sono di gran lunga i più sofisticati. Le capacità di intelligenza artificiale di Washington possono elaborare in tempo reale una variazione dei prezzi del pollame in Tailandia per dedurne un rischio di malattia in California. Il Covid poi è arrivato con ampio preavviso. Ciò nonostante, i risultati sono catastrofici.
Quello che sta succedendo apre una finestra sull’inconscio populista: Boris Johnson e Jair Bolsonaro hanno negato la realtà fino ad ammalarsi. Il loro rapporto con la realtà era piegato alla comunicazione politica. Questo tocca la qualità della democrazia che siamo abituati a distinguere dalle autocrazie in ragione della comunicazione consapevole che intercorre tra autorità e cittadini.
All’inizio della crisi, Trump aveva negato la pericolosità della pandemia vantando, come Johnson e Bolsonaro, l’eccezionalismo del proprio popolo. Quando New York è stata devastata dal virus, stati come Texas, Arizona o Florida hanno continuato a sentirsi eccezione, incoraggiati dalla penetrazione locale delle tv vicine al presidente. Successivamente Trump ha chiesto di ridurre il numero dei test e di non far attraccare una nave da crociera per non comunicare un aumento dei contagi. La diffidenza per una comunicazione verificabile razionalmente ha portato Trump Il 13 aprile a rilanciare sui social media le richieste di licenziamento di Anthony Fauci, l’infettivologo che compensava con competenza i suoi messaggi estemporanei. È una vecchia trappola della democrazia: la maggioranza degli elettori voleva mantenere inalterata la propria vita. A perderla sarebbe comunque stata una minoranza “lavata via”, per usare le parole di Trump, dal virus.
Comunicazioni diverse, risultati diversissimi
L’irreale risposta americana e britannica alla fine non è stata diversa da quella di russi o bielorussi. Eppure all’inizio della pandemia era stato di conforto proprio il coinvolgimento dei cittadini. Forse gli stati di emergenza producono solo pensieri unidimensionali: sopravvivere, guarire, ripartire. Così in condizioni eccezionali come quelle vissute da marzo abbiamo tutti scelto di fidarci di leader politici a cui in tempi normali non davamo credito. Per superare la crisi dovevamo per forza fidarci dei comportamenti dei nostri vicini, sperare che tutti credessero negli stessi comuni principi di prudenza. Senza presumere un minimo livello di colleganza solidale, senza gli applausi ai medici dai nostri balconi, avremmo sentito di essere soli e senza scampo. Per questo abbiamo istintivamente anticipato la nostra fiducia a chi governa, con un misto di disagio e di speranza.
La risposta ordinata sembrava smentire l’idea convenzionale di un declino culturale della società. A destra si imputava la perdita di senso civico e comunitario alla laicizzazione, al permissivismo e all’annacquamento dei codici identitari conseguenza dell’immigrazione. A sinistra si denunciava la mercificazione degli individui e la superiorità dell’ordine finanziario rispetto a ogni altra considerazione. Il timore di un destino solitario e terribile aveva invece ricucito il tessuto sociale.
Una versione meno benevola constata che i paesi in cui è più alta la fiducia negli altri e nelle istituzioni, come Svezia e Gran Bretagna, paesi che si fondano sulla “libertà responsabile” degli individui, hanno avuto inizialmente peggiori esiti nel contrasto alla pandemia dei paesi in cui i cittadini non si fidano né degli altri individui, né di chi li governa, come nell’Est europeo. La distanza sociale sarebbe stata in realtà diffidenza sociale. Rispetto alla quale, democrazia, sussidiarietà, libertà o buon governo arretravano in un remoto secondo piano. Ma la seconda fase della crisi, l’uscita dall’emergenza e il riavvicinamento, ha modificato di nuovo tutto.
Il paradosso è che proprio Washington aveva costruito una struttura primordiale di monitoraggio delle pandemie (Global Argus) ai tempi della presidenza di George W. Bush e della peste aviaria. Da allora la capacità di elaborazione è esplosa e nel 2020 la quantità dei dati da tutto il mondo è mille volte maggiore. Gli esperti di Washington erano in grado di vedere la diffusione del virus a Wuhan fin da dicembre. Il rischio di pandemia era stato inserito a fine 2019 nel Daily Brief che ogni mattina è consegnato al presidente alla Casa Bianca. Ma Trump era solo interessato a usare la pandemia come un atto d’accusa nei confronti della Cina: la realtà piegata alla comunicazione politica.
La credibilità analitica dei leader viene spesso confusa con la loro forza comunicativa. Nel caso della pandemia era necessario invece un processo di maturazione e di dialogo tra autorità e cittadino che accompagnasse quest’ultimo dall’emergenza alla corresponsabilità. A questo riguardo, la modestia intellettuale di Trump viene spesso confrontata con la lucidità di Angela Merkel una chimica quantistica cresciuta elaborando le equazioni di Schrödinger e poi passata alla politica. Analogamente, la continua e faticosa interazione tra le sovranità europee viene interpretata come una debolezza.
Le diverse reazioni in Europa
Nella prima fase, l’emergenza in Europa ha seguito schemi nazionali. in Spagna si è proclamato lo stato di emergenza. Da Merkel è giunto invece un richiamo alla prudenza a un paese in cui lo stato di eccezionalità è troppo legato a Weimar. In Germania le condizioni per regimi di eccezionalità sono ben specificate: la guerra, solo difensiva; l’emergenza di sicurezza interna; e infine lo stato di catastrofe naturale. All’opposto, la Francia si è distinta per un linguaggio marziale di guerra al virus, avendo già vissuto due anni di stato di emergenza dopo gli attentati terroristici del 2015. In Italia ha prevalso una comunicazione emotiva: “torneremo ad abbracciarci” è stato come sempre un affidamento alla responsabilità famigliare anziché a quella dello Stato. La differenza per le democrazie europee questa volta era che l’emergenza non era la reazione a un attacco o un attentato, ma la prevenzione di un rischio. Quindi la scelta politica usava ampi margini di arbitrio che da cittadini tutti abbiamo accettato, ma in attesa di comprendere se le decisioni prese fossero appropriate, necessarie e proporzionali.
L’isolamento fisico di ogni individuo ha reso concreto l’isolamento economico. La società si è ritrovata lacerata dalla divergenza dei destini di ognuno di fronte a un futuro incerto. Per compensare l’isolamento in Europa è stata necessaria una comunicazione negoziata tra i paesi e quindi sia razionale, sia solidale. Negli Usa, mentre la contagiosità del virus persiste, il senso di comune destino è svanito e quello di disordine ha prevalso. Le divergenze latenti – per povertà, per razza, per evidente sfiducia nel proprio futuro – sono esplose come le vetrine nelle città e leadership e statue rischiano di essere abbattute con altrettanta violenza.
Milioni di casi Covid confermati per milioni di persone (in rosso gli Usa, in blu l’EU)
L’articolo è precedentemente apparso su Repubblica l’11 luglio 2020. Riprodotto per gentile concessione.
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