Questioni di framing. Giudici, sentenze e libertà di parola
8 agosto 2020
È del 5 maggio la sentenza-bomba della Corte costituzionale federale di Karlsruhe. È del 31 luglio la missiva del ministro delle Finanze tedesco, con la quale considera invece proporzionati gli acquisti di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea; acquisti, verso i quali la Corte tedesca aveva manifestato fortissime perplessità, lamentando lesioni al principio di sovranità dello Stato tedesco. Forse si potrebbe osservare che non spettava al governo prender posizione, bensì allo stesso giudice di Karlsruhe, ma non è questo il punto. La forte sentenza del 5 maggio ha visto la rumorosa uscita di scena del presidente di quel collegio, Andreas Vosskuhle, al termine del suo mandato. Rumorosa, perché quella sentenza ha fatto tremare l’euro, perché – per dirla con il prof. Franz Meyer dell’università di Bielefeld – “ha innescato una bomba atomica” e perché – citando il Primo presidente della Cassazione tedesca (BGH), Peter Meier-Beck – “ha attaccato l’Ue quale comunità di democrazie”. Insomma, perché sentenza platealmente – a voler usare una semplificazione d’uso corrente – ‘populista’.
La pronuncia non si sottrae a quest’etichetta per il suo approccio netto e quasi violento nei confronti della Corte di Giustizia UE, che aveva già nel 2018 espresso una propria posizione sullo stesso punto: i giudici di Karlsruhe si sono ritenuti muniti del potere di sindacare e di censurare la decisione dei colleghi di Lussemburgo, affermando che il controllo del rispetto del principio di proporzionalità non può sfuggire a un controllo delle Corti interne; così mettendo in discussione l’intero sistema delle fonti eurounitario, faticosamente costruito intorno alla primauté communautaire e mettendo a rischio l’indipendenza della Banca Centrale, che avrebbe agito oltre i limiti del proprio mandato. La volontà dei giudici tedeschi riporta surrettiziamente la decisione ultima di politica monetaria all’interno del quadro nazionale, aprendo la strada a conseguenze potenzialmente dirompenti sulla tenuta dell’Euro.
In sintesi, il reasoning della sentenza si fonda sul postulato della prevalenza ultimativa della sovranità interna (vista come unica vera sede ove si esplica una legittimità democratica) rispetto al quadro sovranazionale.
Ebbene, a fronte di ciò, il diretto interessato, il presidente Vosskuhle, ha commentato con sufficienza – in un’intervista rilasciata ad Anna Schneider (fonte: il tweet della “Neue Zürcher Zeitung”, 31 maggio 20 ore 7:58) “was sein muss, muss eben sein” (“cosa deve esser, sia”), riferendosi allo stop agli acquisti di titoli pubblici da parte del governo tedesco, svolto nell’ambito del programma di Quantitative Easing (strumento che, secondo molti, fu il principale artefice della salvezza dell’Euro a seguito della crisi del 2011).
“Was sein muss, muss eben sein”, ma la sentenza è troppo importante, perché la si lasci scorrere così, con la stessa superficialità con la quale l’Europa ad esempio sta facendo scorrere la vicenda di Santa Sofia ad Istanbul o l’incendio della cattedrale di Nantes. E torniamo quindi al potente presidente, ormai prossimo a tornare all’insegnamento di Dottrina dello Stato e Filosofia del diritto nell’università di Friburgo. Gli si attribuisce vicinanze ad un partito (la declinante Spd), gli si ipotizza una candidatura alla (poco più che simbolica) Presidenza della Repubblica federale.
Ma non è questo il punto. Bensì la libertà di parola, più esattamente la libertà d’intervista di un giudice. In anni andati vi fu chi teorizzò che la corruzione (un favore in cambio di denaro) sia meno pericolosa della vanità per un giudice di apparire, di esser intervistato, di esser insomma conosciuto, celebre e celebrato. Ebbene, il preclaro professore, nella veste di giudice costituzionale, non è nuovo ad interventi pubblici, sempre sapidi e densi di contenuti, che attirano l’attenzione, come in occasione dell’intervista rilasciata il 23 novembre 2017 alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (pag.6). Anche questo intervento pubblico agevolmente oltrepassò confini puramente tecnici: con parole affilate scolpì giudizi lapidari sul populismo: “(esso esprime un’impostazione politica, in forza della quale ad un popolo moralmente puro si contrapporrebbero élites amorali, corrotte e parassitarie”), lambendo i confini e forse oltrepassando addirittura i limiti per un giudice costituzionale, riferendosi a forze politiche, liberamente elette e rappresentate in Parlamento e qualificate come “entità che disprezzano la costituzione”.
Ebbene, non è il caso di riflettere sulla definizione che egli fornisce di populismo (diversa da quella di un Heribert Prantl o di un Ralf Dahrendorf), né sulla sentenza in quanto tale. Bensì sullo iato: dapprima contesta i fenomeni patologici del populismo (novembre 2017), poi nei fatti però, con la sentenza di cui sopra (maggio 2020), asseconda quelle ‘pulsioni’ populiste. Eppure, si è potuto permettere quel tono di sufficienza verso le perplessità alla sentenza: forse perché si era ritagliato lo spazio giusto nel frame giusto. Fatto è che – nonostante la fresca sentenza ‘populista’- si è pure potuto permettere di criticare Ungheria e Polonia (evidentemente collocate nei frames sbagliati) per inadeguata tutela dei rispettivi Stati di diritto.
Emerge un parallelismo con una vicenda analoga negli Stati Uniti a proposito dei rapporti con la Cina: Trump viene contestato quale becero populista, se eccepisce lo squilibrio nei rapporti con la Cina. So far, so good, ma se un concetto molto simile viene espresso dal prof. Dani Rodrik, titolare di International Political Economy presso Harvard, allora la valutazione muta e il concetto non suona più populista [sul punto si rinvia ad un più approfondito articolo Al fianco dei lavoratori e contro il global-capitalismo cinese. Ma Trump è di sinistra? del 10 ottobre 2018]. Questo professore infatti sostiene che il tentativo di abbattere ogni frontiera per beni (e migranti) si espone al rischio di fallire, specie alla luce di forme evidenti di sfruttamento della manodopera a basso prezzo (dumping sociale). Analogamente, Rodrik prende spunto dall’esperienza del porto di Qingdao per giungere alla conclusione di violazioni sistematiche da parte cinese dello spirito e di disposizioni del WTO. Ebbene, se pronunciate e scritte da un docente della School of Government di Harvard, allora queste parole non appaiono più populiste. Questione di frames?
Ma così diventa impossibile valutare le cose per quel che sono e i problemi non si risolveranno mai, se una pre-valutazione si antepone alla nuda e cruda realtà dei fatti. E di fronte alla realtà dei fatti conta la qualità dell’idea, non l’a priori di una valutazione preconfezionata. Ben venga quindi ogni iniziativa – come il recente appello di intellettuali statunitensi su Harper’s Magazine – volta a porre un argine all’intolleranza dell’apriorismo.
Ecco il problema del framing, della cornice intorno alla quale si costruisce l’immagine di un personaggio. Indipendentemente dai contenuti, dalla qualità dei contenuti di quanto detto o fatto, la frenesia di quest’era tecnologica privilegia un pensiero corto ed esprime valutazioni, sulla base di elementi aprioristici, circa la correttezza politica di un’idea. Se il “cantante”è di fama e sulla cresta dell’ onda, allora la “canzone” può e deve piacere; se invece il singer è in disgrazia, o comunque non inquadrato, allora il suo song è aprioristicamente condannato, quanto meno all’oblio, se non peggio.
Dietro questo framing aprioristico si cela il rischio di una drammatica intolleranza, che a sua volta potrebbe aprire le porte al trionfo di una nihilista cancel culture.
La libertà di pensiero e di parola va tutelata, prima di doverci radunare nel bosco come gli eroi del romanzo di Roy Bradbury, Fahrenheit 451.
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