Tutti gli ostacoli della politica alle riforme amministrative

11 agosto 2020
Editoriale Open Society off
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I sentieri delle riforme della pubblica amministrazione italiana hanno attraversato la storia repubblicana

Interventi legislativi di particolare rilievo, sul piano della modernizzazione dell’apparato amministrativo, sono stati tentati sin dagli anni Cinquanta, poi pianificati tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, soprattutto, sono stati compiuti negli anni Novanta dello scorso secolo. Successive misure d’innovazione sono state introdotte a seguito della crisi economica degli anni Duemila. Tali riforme hanno tendenzialmente prodotto effetti benefici, ma si è sempre evidenziata la difficoltà d’implementazione del processo riformatore.

Oggi, a causa dell’emergenza epidemiologica, siamo alle porte di una nuova epoca di trasformazione, incentrata sulla digitalizzazione e sullo sviluppo sostenibile, probabilmente finanziata con il nuovo “Piano Marshall” europeo. Occorrerà operare investimenti oculati, per potere ripagare il debito derivante dai prestiti e, se possibile, diminuire gradualmente quello accumulato nei decenni precedenti. È necessario, quindi, ragionare su ciò che non ha funzionato in passato e, soprattutto, sui freni che, nei trascorsi tre quarti di secolo, hanno impedito alle riforme di realizzarsi al meglio. Le cause sono numerose. Talune endemiche altre contingenti, talune esogene altre endogene.

La vulgata attribuisce al ventre molle della burocrazia amministrativa l’impossibilità di ottenere i risultati che sarebbe lecito attendersi, nel senso che gli interventi riformatori finiscono spesso per “rimbalzare” sulle resistenze dell’apparato burocratico. Per certi versi, ciò risponde al vero. Vi sono numerosi ostacoli “interni” che rendono complicato portare a compimento la modernizzazione del sistema amministrativo. Si tenga conto, ad esempio, che il settore del pubblico impiego è tra quelli a più forte intensità di sindacalizzazione, per cui, specie in alcuni comparti, è arduo affrontare questioni legate ai modi di reclutamento del personale e alla valutazione dello stesso. Vi sono, però, anche ostacoli “esterni” all’apparato burocratico che vanno tenuti in adeguata considerazione e che non sempre vengono valorizzati.

Ci si sofferma, di seguito, su tre impedimenti della politica alle riforme amministrative.

L’instabilità di governo come principale freno

È più di un semplice ostacolo, trattandosi di un carattere permanente del nostro ordinamento repubblicano. E se, per i primi decenni, al variare dei protagonisti alla guida dell’esecutivo, l’egida era comunque unitaria, quella dello scudo crociato democristiano, nell’ultimo mezzo secolo è mancato pure questo flebile elemento di continuità. Se si considerano le quattro democrazie di maggior tradizione, se ne ricavano dati radicalmente diversi: in Gran Bretagna, si sono succeduti quindici Prime Minister dal 1945 ad oggi; negli USA, tredici Presidenti; in Francia, dieci Presidenti (a fronte di un frequente ricambio di Primi Ministri); in Germania, otto Cancellieri. In questi quattro paesi vi è sempre stata alternanza tra due sole forze politiche. Il dato che impressiona maggiormente è quello tedesco: dal 1982 ad oggi in Germania vi sono stati solo tre Cancellieri. Esclusa una parentesi di sette anni di cancellierato del socialdemocratico Gerhard Schröder, la Cristlich Demokratische Union (Cdu) ha espresso il Bundeskanzler per trentuno negli ultimi trentotto anni (Helmut Kohl dal 1982 al 1998 e Angela Merkel dal 2005 ad oggi). È evidente che in quell’ordinamento il grado di continuità nell’attività di governo (e, di conseguenza, il livello di continuità nell’attività amministrativa) è molto più elevato rispetto a quello di altri paesi.

Il paragone con l’Italia è impietoso: dal 1945 ad oggi vi sono stati, da noi, quarantatré Presidenti del Consiglio, con la Carta costituzionale che, in considerazione della forma di governo parlamentare, attribuisce al nostro Presidente della Repubblica un novero di poteri non paragonabile a quello dell’omologo francese (il quale opera, come è noto, in un sistema semipresidenziale). Soltanto il Giappone, con trentacinque Primi Ministri negli ultimi settant’anni, ha registrato un livello d’instabilità governativa paragonabile all’Italia.

I tre corollari che derivano dall’instabilità di governo

Il primo è quello che, si potrebbe definire, dell’ansia da prestazione. Dal momento che l’aspettativa di vita di un governo italiano è di circa un anno e mezzo, l’esecutivo è concentrato su obiettivi immediati, che possano produrre risultati tangibili nel breve arco di tempo. Ne deriva che lo sguardo è necessariamente corto e che l’indirizzo politico dato all’amministrazione è pressoché privo della programmazione e pianificazione di medio-lungo periodo. Inoltre, il clima da campagna elettorale permanente fa prevalere la logica dell’amico/nemico, anziché quella della collaborazione fra forze politiche alla progettazione comune, al di là degli schieramenti; ciò produce effetti deleteri sull’azione delle pubbliche amministrazioni, in particolare su quelle chiamate a svolgere attività a carattere continuativo o a porre in essere fattispecie a formazione progressiva.

Il secondo corollario è che la frequente staffetta alla guida dell’esecutivo determina la carenza di continuità dell’azione e l’incostanza nel perseguimento di fini pubblici, per cui ciò che si è tessuto nell’arco di uno o due anni di lavoro non sempre viene proseguito e portato a compimento dal successivo governo. Questo profilo è di particolare gravità, perché non consente all’amministrazione di lavorare con la dovuta determinazione all’implementazione delle riforme. È accaduto di frequente che il legislatore abbia introdotto importanti riforme, ma che esse non abbiano visto la luce per come originariamente ideate. Per l’attuazione e la messa a regime delle riforme, infatti, occorre tempo, talvolta anni, e spesso, a causa delle modifiche in itinere, la concreta realizzazione non corrisponde al disegno originale.

Il terzo corollario è quello dell’ipertrofia e del caos normativo. Si tratta di una patologia costante dell’Italia repubblicana, ulteriormente accentuatasi nell’ultimo quarto di secolo, a seguito cattiva abitudine della cd. legislazione omnibus ovvero dell’adozione di atti con forza di legge quali meri veicoli di norme dai più diversi contenuti. La frammentazione normativa, spesso motivata con ragioni di emergenza, è divenuta pratica quotidiana: si interviene con misure di dettaglio a modificare precedenti disposizioni, senza porre attenzione al drafting normativo. La caotica e ipertrofica produzione normativa accentua l’incertezza del diritto e l’instabilità dei rapporti giuridici. Ciò si riflette sulle difficoltà dell’apparato burocratico nell’adottare decisioni amministrative: con un assetto normativo multilivello, fragile e cangiante si ampliano gli spazi interpretativi e si presta il fianco agli interventi, talvolta esondanti, della Corte dei conti e del giudice penale.

L’ ostacolo “esterno” del distorto rapporto tra politica e amministrazione

La politica utilizza soprattutto due strumenti per controllare e tenere avvinta a sé la burocrazia amministrativa: la stabilizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici precari e la precarizzazione degli incarichi dei dirigenti pubblici di professione. Si tratta di meccanismi in opposizione alla scelta fondata sul merito, alla selezione del migliore per il ruolo da assegnare.

Il primo strumento è in contrasto con l’art 97 della Costituzione, secondo cui «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso». La stabilizzazione è frutto di una triplice distorsione: si assumono precari per far fronte a carenze di personale, dovute al blocco delle assunzioni o a difetti di programmazione nel definire il turnover; il rapporto a tempo determinato prosegue per anni e, talvolta, per decenni, in spregio alle disposizioni che ne limitano la durata; dopo diversi anni interviene la politica, spesso in concomitanza di una tornata elettorale, a trasformare il rapporto precario in rapporto a tempo indeterminato. La stabilizzazione integra, così, un meccanismo di fidelizzazione del consenso: si sanano storture del sistema con misure costituzionalmente illegittime. Ma è soprattutto il secondo strumento a creare problemi, perché incide sulla tenure e, cioè, sulla stabilità e sulla durata della carica dei dirigenti pubblici. Attraverso lo spoils system e il conferimento d’incarichi dirigenziali, la politica fidelizza i dirigenti pubblici, in misura più o meno accentuata.

Come è noto, la regola del bottino al vincitore delle elezioni fu coniata nel 1832 da William L. Marcy, intervenendo in difesa della nomina ad ambasciatore a Londra di Martin van Buren da parte del Presidente Andrew Jackson: «The politician of the United States (…) they see nothing wrong in the rule, that to the victors belong the spoils». Il vincitore alle elezioni prende tutto e la politica occupa i posti di vertice dell’amministrazione con nomine fiduciarie.

Tra la fine del secolo scorso e i primi anni Duemila, si è tentato anche da noi di applicare “all’italiana” il metodo delle spoglie, occupando, con modalità pervasive, le aree dell’agire imparziale dell’amministrazione. La Corte costituzionale ha posto un freno a queste distorsioni, limitando il meccanismo dello spoils system ai soli incarichi apicali. Ad esempio, le scelte del Capo Dipartimento e del Segretario generale di un ministero o del Direttore generale di un comune devono essere connotate dal carattere della fiduciarietà, per cui, venendo meno la fiducia reciproca, il rapporto può essere sciolto in qualsiasi momento dal vertice politico. Inoltre, vale la regola simul stabunt simul cadent: terminato il mandato politico, s’interrompe anche il rapporto con coloro che rivestono posizioni apicali. La Corte costituzionale ha stabilito, tuttavia, che agli altri dirigenti pubblici lo spoils system non possa applicarsi. Peraltro, a seguito della contrattualizzazione del rapporto di lavoro intervenuta negli anni Novanta, la dirigenza amministrativa, in cambio di consistenti benefici economici e di un incremento di responsabilità (la quale ha prodotto, per contrasto, la cd. burocrazia difensiva), ha visto precarizzare la propria posizione. I dirigenti restano, quindi, in attesa di Godot ovvero di ricevere l’incarico dirigenziale da parte del vertice politico, secondo le modalità stabilite dalla legge. L’incarico può anche non giungere e, in tali casi, il dirigente è messo a disposizione. Dal tipo d’incarico dirigenziale dipende anche l’entità del trattamento economico, per cui più prestigioso è l’incarico ricevuto, più alto è il compenso (il divario tra l’incarico di dirigente di un ufficio e quello di direttore generale è ragguardevole). La disciplina normativa prevede taluni accorgimenti: l’incarico non può essere conferito semplicemente tramite nomina, ma è prevista una parvenza di selezione (non si tratta, però, di un vero e proprio concorso); inoltre, l’incarico ha una durata prestabilita, da tre a cinque anni. Peraltro, rispetto agli eventuali arbìtri compiuti nella selezione, la tutela giurisdizionale prevista dall’ordinamento è debolissima. L’eventuale contenzioso va sollevato innanzi al giudice del lavoro, con armi spuntate e di fronte a un giudice non abituato a pronunciarsi su tali procedure. Inoltre, se è vero che il contratto è a tempo fisso (può essere revocato, in itinere, soltanto con adeguata motivazione), è anche vero che, per ottenere il rinnovo, il dirigente ha la necessità di farsi apprezzare dal vertice politico. La precarietà e la temporaneità della prestazione pongono il dirigente in uno stato di soggezione nei confronti di chi lo ha nominato, perché questi, allo scadere del contratto, sarà libero di rinnovarlo o non rinnovarlo, a prescindere dai risultati prodotti. Anche in questo caso, gli spazi di tutela giurisdizionale sono ridottissimi.

Ecco, quindi, che la politica è potenzialmente in controllo, per via diretta o indiretta, della dirigenza pubblica nazionale e locale.

Ciò può determinare forti distorsioni nell’attuazione dell’indirizzo politico, perché il dirigente potrebbe essere indotto non ad agire al servizio esclusivo della Nazione, come prevede l’art. 98 della Costituzione, ma al servizio della maggioranza politica di turno, con prevedibili ricadute sui principi di buon andamento e imparzialità (art 97 Cost.).

L’occupazione di strutture organizzative, al confine tra pubblico e privato, per l’alimentazione delle dinamiche partitiche

Nel secondo dopoguerra la politica ha gradualmente lottizzato e utilizzato a fini egoistici il sistema delle partecipazioni statali, rendendo sostanzialmente patologico e non efficace un meccanismo d’intervento pubblico nell’economia che, invece, alla parola d’ordine de «lo Stato fuori dallo Stato», aveva dato buoni frutti nei primi decenni dell’IRI di Alberto Beneduce e Donato Menichella e nei primi anni dell’ENI di Enrico Mattei. A seguito delle privatizzazioni, liberalizzazioni ed esternalizzazioni degli anni Novanta, le nuove aree di occupazione, a fini clientelari e di autoalimentazione dei vizi partitici, sono state rinvenute in quelli che Sabino Cassese ha definito gli “organismi satellite”. Si tratta spesso di soggetti dalla forma privata, ma dalla sostanza pubblica. Ne esistono attualmente, nel nostro Paese, più di sessantamila: quasi cinquantamila in forma societaria (per lo più facenti capo a enti locali), assoggettati a una disciplina speciale rispetto a quella codicistica; più di diecimila in forma associativa, fondativa, consorziale. Ovviamente, non tutti questi soggetti costituiscono superfetazioni inutili, una parte tra essi è anzi necessaria per la gestione di importanti servizi pubblici. Ma un’altra parte potrebbe essere soppressa senza produrre eccessivi danni all’ordinamento giuridico. Eppure, nonostante i tentativi degli ultimi anni, ancora poco si è riuscito a fare per ridurre il novero di tali propaggini satellitari degli enti pubblici, di cui la politica spesso si serve in modo strumentale.

Ciò induce alla riflessione quando si compie un bilancio delle riforme amministrative. Non tutte le riforme hanno prodotto risultati positivi o, quantomeno, accanto agli effetti benefici talvolta occorre registrare anche gli abusi nell’azione riformatrice, talvolta a vantaggio della politica.

Se ai tre ostacoli “esterni” innanzi illustrati, si sommano i freni “interni” alla burocrazia amministrativa, può evincersi come il percorso delle riforme si dipani su pendenze proibitive.

Peraltro, in questo delicato periodo, il tragitto della modernizzazione e dell’innovazione amministrativa è obbligato e va intrapreso senza indugio. Sarà sufficiente contrastare gli anticorpi istituzionali e la tradizionale resilienza delle strutture amministrative?

 

L'autore

Aldo Sandulli è professore di diritto amministrativo alla Luiss


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