Che cosa non funziona nella meritocrazia politica. Il modello cinese e il contrasto alla corruzione
14 agosto 2020
Un buona idea. In teoria
Nella teoria la meritocrazia politica sembra una buona idea. Naturalmente se il sistema è concepito per scegliere governanti con competenze e virtù superiori. Chi preferirebbe essere governato da incompetenti e governanti corrotti? Ma le buone idee possono essere disastrose se vengono attuate in un mondo di persone imperfette che competono per accaparrarsi le scarse risorse disponibili difendendo valori e interessi diversi. Il “Grande balzo in avanti” sembrava una buona idea – abbandoniamo il capitalismo individualista competitivo e passiamo a un mondo di abbondanza materiale e uguaglianza per tutti – ma portò a una carestia che fece decine di milioni di vittime. Anche la Rivoluzione culturale sembrava una buona idea – una democrazia partecipativa dalla base senza alcuna gerarchia sociale – ma condusse a dieci anni di follia.
Perciò la domanda da porsi è se sia possibile mettere in atto una meritocrazia politica in modi che non la guastino. Forse la democrazia elettorale non garantisce che vi siano governanti eccellenti, ma se non altro gli elettori possono liquidarli quando capiscono di aver fatto una cattiva scelta. E porre freni alla democrazia a favore di un meccanismo politico con l’esplicito scopo di scegliere governanti eccellenti che governino perseguendo gli interessi del popolo sembra troppo rischioso senza forti contromisure tese a prevenire che tali amministratori agiscano male. La Repubblica di Platone è forse il libro più letto nella teoria politica occidentale, ma le sue tesi a favore di un governo di re e regine filosofi sono così estreme che pochi oggi leggono l’opera per ispirarsi nella scelta di governanti politici. La tesi più bizzarra è forse che un regime giusto richieda l’abolizione della proprietà privata e della famiglia per la classe delle “guardie”, per essere sicuri che i governanti siano al servizio della comunità politica invece che dei loro interessi privati ed egoistici. In un autorevole saggio sulla Repubblica, Allan Bloom ipotizza che le opinioni di Platone “siano le trovate assurde di un poeta comico, suggerite soltanto per metterle in ridicolo”. Mostrando l’impossibilità di un’utopica meritocrazia politica, Platone (secondo Bloom) cercava di offrire un’abile difesa della democrazia come seconda migliore alternativa praticabile. Persino i filosofi beneficiano della democrazia: è possibile che non detengano il potere politico o un elevato status sociale, ma almeno hanno libertà di parola, che permette loro di ricercare la verità. L’opera sulla meritocrazia più autorevole scritta in lingua inglese nel Ventesimo secolo è una satira politica ben più esplicita: The Rise of Democracy del sociologo Michael Young, pubblicata nel 1958. L’autore dichiara che qualsiasi tentativo di istituzionalizzare un sistema che premi le persone a seconda dei loro meriti (definiti come quoziente intellettivo e impegno) sfocerebbe in un brave new world nel quale un’élite intellettuale potrebbe giustificare il proprio potere relativo e la propria prosperità dicendo che gli esiti sono giusti perché loro erano in effetti migliori degli altri: “se i ricchi e i potenti fossero incoraggiati dalla cultura generale a credere di meritare appieno tutto quello che hanno, quanto arroganti potrebbero diventare, quanto spietati nell’inseguire il loro vantaggio. […] Se [le persone comuni] si ritengono inferiori, se credono di meritarsi meno beni terreni e meno potere terreno che una selezionata minoranza, può essere compromessa la loro autostima, e loro possono in genere demoralizzarsi”. L’opera di Young ha venduto centinaia di migliaia di copie e reso tossico il termine meritocrazia agli occhi delle successive generazioni di teorici politici. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, il quesito centrale per i teorici è divenuto come promuovere una società di uguali. In una società complessa e moderna possono rendersi necessarie le gerarchie, ma i teorici nel mondo occidentale concordavano in genere nel considerare ogni tipo di gerarchia moralmente problematica e consigliavano di evitare di istituzionalizzarne nel sistema politico. Più nello specifico, l’opera di Young indica tre problemi cruciali che vengono in genere associati a qualsiasi tentativo di adottare una meritocrazia politica:
(1) governanti politici scelti per la loro eccellenza hanno maggiore probabilità di abusare del loro potere;
(2) le gerarchie politiche possono cristallizzarsi e compromettere la mobilità sociale;
(3) è difficile legittimare il sistema per chi è esterno alla struttura del potere.
Il problema della corruzione
Il problema più evidente in qualsiasi sistema di meritocrazia politica è la probabilità che leader scelti per i loro meriti abusino del loro potere. Se i governanti non sono scelti dal popolo e se il popolo non può cambiarli (se non con mezzi estremi come la ribellione e la violenza), che cosa impedirà loro di servire i propri interessi invece che quelli della comunità? A prescindere dalle nostre opinioni sulle tesi contrarie alla democrazia elettorale, questa è sicuramente un buon mezzo per tenere sotto controllo il potere dei governanti, perché alle elezioni possono essere sostituiti. Perciò, non dovrebbe sorprendere che vi siano diffusi abusi di potere in Cina.
Il problema forse più grave è la corruzione ufficiale – l’abuso del pubblico ufficio per guadagni privati. Il livello generale della corruzione è esploso negli ultimi trent’anni, e negli ultimi anni è divenuto un problema politico anche più visibile a causa dei riflettori dei social media e dell’uso più cospicuo da parte delle élite politiche. Nel salire al potere, il presidente Xi Jinping ha riconosciuto che la corruzione minaccia la stabilità dell’intero sistema politico e ha dichiarato che la lotta contro la corruzione è la priorità assoluta del governo. È chiaro che la corruzione comprometta non soltanto la legittimità del Partito, ma anche lo scopo intero di costruire una meritocrazia politica composta da governanti che siano animati dal fare il bene pubblico. È possibile combattere la corruzione in un sistema meritocratico senza ricorrere alla madre di tutti i freni, vale a dire elezioni competitive che diano agli elettori il potere di sbarazzarsi di leader cattivi? Nella realtà, la democrazia elettorale non è sempre (o anche di solito) un solido bastione contro la corruzione. Secondo Transparency International, paesi democratici come l’Indonesia e l’India sono percepiti come più corrotti della Cina; nel caso dell’Indonesia, la corruzione sembra essere peggiorata proprio a seguito della democratizzazione politica. A Taiwan, l’autoritario leader del Kuomintang (KMT), Chiang Ching-kuo, ha ripulito quello che era stato uno dei sistemi più corrotti nella storia mondiale, ma la situazione è tornata a peggiorare nel processo di democratizzazione introdotto da Lee Teng-hui.
Come combattere la corruzione
Quel che sembra aiutare a combattere la corruzione è il livello di sviluppo economico: paesi più ricchi – anche in caso non vi siano elezioni del tutto libere ed eque per i vertici del potere come accade a Singapore, in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti – tendono a essere meno corrotti. Nel libro China Modernizes, Randall Peerenboom sostiene che la qualità della governance nella regione dell’Asia orientale, compreso il controllo della corruzione, migliora con il livello di sviluppo economico. In Cina, le regioni più ricche come quella di Shanghai sono tendenzialmente meno corrotte delle aree povere dell’entroterra rurale. Il livello di corruzione è influenzato anche da altri fattori – uno studio ha registrato che le province cinesi in cui si investono più energie nell’anticorruzione, che ottengono i migliori risultati nell’ambito dell’istruzione, quelle influenzate storicamente da università legate a chiese angloamericane, più aperte, che hanno più accesso ai media, salari relativamente più elevati degli impiegati governativi, e una maggiore rappresentanza di donne nella legislatura, sono marcatamente meno corrotte – ma un PIL elevato pro capite è ancora il miglior argine alla corruzione.
Perché quindi non aspettare semplicemente qualche decina d’anni quando (presumendo uno scenario di crescita economica ottimista) la Cina sarà divenuta un paese ricco? Detto altrimenti: perché i leader cinesi si preoccupano tanto della corruzione proprio ora? Dopo tutto, gli Stati Uniti avevano livelli elevati di corruzione nel corso del processo di industrializzazione alla fine del Diciannovesimo e all’inizio del Ventesimo secolo, ma i leader politici non avevano la preoccupazione che rischiasse di crollare l’intero sistema politico. La preoccupazione in Cina è legata soprattutto al suo sistema meritocratico. In una democrazia, i leader acquisiscono legittimità nel venir scelti dal popolo, il quale, se non è soddisfatto, può cambiarli alle elezioni successive. Se la successiva infornata di leader è ancora corrotta, in certa misura il popolo deve biasimare sé stesso. In una democrazia, dalla corruzione non consegue che il sistema politico non sia democratico. In una meritocrazia politica come la Cina, per converso, il sistema dovrebbe selezionare leader con virtù eccellenti, a intendere che i governanti dovrebbero utilizzare il potere al servizio della comunità politica, non per sé stessi. In altre parole, più alto è il livello della corruzione politica, meno meritocratico è il sistema. Espressa al negativo, il regime mancherà la legittimità se i suoi leader vengono percepiti come corrotti. Perciò, i leader cinesi non sbagliano nel pensare che la corruzione minacci l’intero sistema politico.
Tali opinioni non sono mere speculazioni teoriche: il PCC ha vinto i cuori e le menti della (maggioranza della) popolazione cinese nella guerra civile con il KMT almeno in parte, se non principalmente, perché la percezione era che fosse molto meno corrotto. Dal punto di vista della sopravvivenza del regime, è davvero allarmante che la corruzione in Cina sembri aver raggiunto livelli simili a quelli dell’epoca pre-rivoluzionaria sotto il governo del KMT. In più, Yan Sun ha dichiarato che era stata la corruzione, più che l’esigenza di democrazia, alla radice dell’insoddisfazione sociale sfociata nel movimento di protesta di Tienanmen nel 1989.
Negli ultimi vent’anni, gran parte dell’insoddisfazione in Cina è stata diretta contro la corruzione di funzionari di rango inferiore, ma i casi di Bo Xilai e Zhou Yongkang indicano che ai vertici c’è del marcio che minaccia in modo più diretto le fondamenta del sistema politico. Lo stesso vale per le relazioni di Bloomberg e del New York Times che hanno denunciato le enormi fortune accumulate da membri familiari dell’élite politica cinese. Il governo cinese ha reagito chiudendo siti internet di media stranieri “ostili”, ma tali misure di ripiego riusciranno soltanto a posticipare il giorno della resa dei conti. In breve, è evidente che leader scelti per meriti hanno più stimoli a sradicare la corruzione rispetto a quelli eletti democraticamente, se non altro perché la sopravvivenza del regime dipende da questo. Ma il quesito rimane: è possibile fronteggiare il problema della corruzione attraverso mezzi che non siano la democrazia elettorale? Per rispondere alla domanda, dobbiamo comprendere le cause alle radici della corruzione politica in Cina e prendere in considerazione i modi per affrontare il problema. La causa di corruzione più ovvia è l’assenza di freni indipendenti al potere del governo; senza il principio dello Stato di diritto, come è possibile contenere il potere di funzionari governativi corrotti? D’altronde non è corretto assumere che i funzionari cinesi esercitino un potere illimitato e governino con impunità dittatoriale.
Un modello antico
La dinastia Han aveva ideato istituzioni allo scopo di decentralizzare, frenare e controllare il potere dell’imperatore che modellarono il corso della successiva storia imperiale, anche con istituzioni indipendenti per la formazione di studiosi confuciani. La rule of avoidance proibiva ai funzionari di prestare servizio nelle loro aree natie, per evitare conflitti tra vincoli locali e il perseguimento del bene comune. Gli incarichi politici non potevano di norma essere tramandati alla generazione successiva, a meno che i figli non passassero il processo degli esami. Naturalmente, al vertice del potere politico c’era l’imperatore, ma non aveva potere assoluto e incontrollato. Il compito di controllare gli amministratori a ogni livello per evitare la corruzione e condotte illecite era affidato al censorato, che a volte critica va l’imperatore stesso. Il sistema degli esami serviva da freno anche al potere dell’imperatore. Anche solo a livello simbolico l’imperatore non era, per così dire, il numero uno: le parole che designavano l’imperatore nel corso degli esami dovevano essere scritte due spazi al di sopra del testo, ma la posizione dei genitori dell’imperatore e degli antenati era ritenuta più elevata ancora e i caratteri che li designavano dovevano essere posti tre spazi al di sopra del testo. Da bambino, l’imperatore veniva educato alle virtù confuciane e di seguito gli storici di corte avevano lo scopo di monitorare quasi ogni aspetto della sua condotta e virtù: nelle parole di una petizione all’imperatore Shenzong da parte di Lü Gongzhu, archiviata nel 1085, “ciascuna singola azione e ciascuna parola di governante deve essere scritta da uno storico. Se [il governante] mostra mancanza di virtù, non è solo a svantaggio del popolo, ma il fatto che questo venga registrato nelle storie servirà come fonte di ridicolo per innumerevoli generazioni. Perciò egli dovrà alzarsi presto al mattino e andare a letto tardi, lavorare sodo e raffinare la propria cultura, governare in modo retto e giusto e controllare il cuore in accordo con i riti. Deve essere praticata la più minuziosa bontà, ed eliminata ogni minima cattiveria.” Filosofi politici contemporanei sostengono che tali meccanismi disciplinari confuciani potrebbero adattarsi anche alle strutture governative dei sistemi odierni; forse non renderanno i governanti modelli di virtù, ma almeno possono contribuire a evitare abusi di potere

Il modello Cina
Meritocrazia politica e limiti della democrazia
Luiss University Press
Prefazione di Sebastiano Maffettone
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