Interessi dei territori e leale collaborazione: le Camere di commercio
17 agosto 2020
Con la sentenza n. 169 del 2020 la Corte costituzionale si è pronunziata sulla legittimità dell’art. 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) e dell’art. 3 del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 219 (Attuazione della delega di cui all’articolo 10 della legge 7 agosto 2015, n. 124, per il riordino delle funzioni e del finanziamento delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura). Il giudice delle leggi ha riunito i giudizi scaturiti da ben sette ordinanze di rimessione del TAR Lazio di identico tenore argomentativo che lamentavano, per il tramite della violazione degli artt. 5, 117 e 120 Cost., la lesione del principio di leale collaborazione tra Stato e le Regioni nell’esercizio della delega in tema di riordino e finanziamento delle Camere di commercio.
Ad avviso dei giudici rimettenti, la citata legge di delegazione non aveva previsto un adeguato coinvolgimento delle Regioni nella fase di approvazione del decreto legislativo concernente la riforma delle Camere di commercio: la norma di legge ha prescritto infatti un mero parere, da parte degli enti regionali, e non l’intesa tra Stato e Regioni sullo schema di decreto legislativo. Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di delegazione sarebbe scaturita «in via derivata» la caducazione dell’intero art. 3 del d.lgs. n. 219 del 2016, il quale offre, a sua volta, fondamento al decreto del Ministro dello sviluppo economico 16 febbraio 2018 (Riduzione del numero delle Camere di commercio mediante accorpamento, razionalizzazione delle sedi e del personale), impugnato nei giudizi principali instaurati davanti al TAR Lazio.
Occorre premettere che la Corte, con la sentenza n. 261 del 2017 si era già pronunziata sull’art. 3, comma, 4, del predetto D.lgs. n. 219/2016 che era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui faceva precedere l’adozione del suddetto D. M. da un mero parere in luogo dell’intesa da acquisire in sede di conferenza Stato-Regioni e Province Autonome. La decisione della Corte è stata presa durante una camera di consiglio svoltasi “in modalità telematica” i cui esiti, evidentemente molto attesi, sono stati anticipati da un comunicato stampa del 24 giugno 2020.
Orbene, la sentenza in questione è degna di particolare interesse perché, pur muovendosi entro la cornice giurisprudenziale inaugurata dalla pronunzia n. 251 del 2016 in tema di rispetto del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, contribuisce a chiarire alcuni interrogativi in parte lasciati insoluti dalla decisione in parola. In primo luogo, l’ambito entro cui si colloca l’obbligo della leale collaborazione viene ancor più chiaramente circoscritto alla sola ipotesi dell’emanazione dei decreti delegati aventi ad oggetto “istituti” caratterizzati dall’intreccio di competenze legislative esclusive dello Stato con quelle residuali delle Regioni. In tal modo, la Corte ha avuto modo di evidenziare ancora una volta “che il principio di leale collaborazione non si impone, di norma, al procedimento legislativo”, confermando una lettura della precedente pronunzia del 2016 già ventilata da una parte della dottrina (R. Bifulco, L’onda lunga della sentenza 251/2016 della Corte costituzionale, in Federalismi.it., 3/2017, 5) e tesa a circoscrivere l’operatività del principio in parola esclusivamente al procedimento di adozione dei decreti delegati.
In secondo luogo, la Consulta ha ribadito come l’eventuale illegittimità costituzionale della legge di delegazione, in quanto lesiva della leale collaborazione, non si estende in modo automatico ai successivi decreti legislativi delegati dovendo aversi riguardo sul punto alle “soluzioni correttive” concretamente approntate dal Governo per garantire il rispetto del principio in parola. Insomma, all’illegittimità della legge di delegazione, volendo usare categorie che sono proprie del diritto amministrativo, conseguirebbe semmai una invalidità viziante e non caducante dei decreti legislativi delegati fra tanto emanati. Su quest’ultimi, del resto, sarebbe sempre possibile intervenire per il tramite di decreti correttivi adottati sulla base dell’intesa raggiunta con le Regioni, secondo la soluzione a suo tempo suggerita dal Consiglio di Stato all’indomani della sentenza n. 251 del 2016.
Venendo poi agli argomenti che hanno indotto la Corte a rigettare la questione di legittimità costituzionale prospettata dal TAR Lazio, occorre concentrarsi su due profili che evidenziano una stretta contiguità tra la pronunzia de qua e la sentenza n. 261 del 2017. Il primo attiene alla sostanziale sovrapposizione tra la questione a suo tempo decisa dalla Corte con la pronunzia del 2017 e quella da ultimo prospettata dai giudici rimettenti, mentre il secondo concerne la natura dell’intesa quale strumento teso a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione. Con riferimento al primo aspetto, la Corte ha buon gioco nell’evidenziare come «la eventuale dichiarazione di illegittimità derivata dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2019 porterebbe a sindacare la medesima disposizione normativa due volte per violazione del medesimo principio: “a valle” perché non ha previsto, nella attuazione tramite decreto ministeriale, un adeguato coinvolgimento delle autonomie regionali, “a monte” perché non concertata con le Regioni prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo». Insomma, il giudice delle leggi riconosce di essere chiamato a decidere una questione di legittimità costituzionale avente sostanzialmente il medesimo oggetto, oggi l’intero art. 3 mentre ieri il solo comma 4 dello stesso art. 3, ma in relazione alla violazione del medesimo parametro. Circostanza quest’ultima che, invero, avrebbe anche potuto indurre la Corte ad optare direttamente per l’inammissibilità della questione prospettata dai giudici rimettenti onde meglio garantire il rispetto della previsione di cui all’art. 137, comma 3, Cost., oltre che il generale principio del ne bis in idem. Quanto al profilo concernente la natura dell’intesa, la Corte evidenzia come a seguito della sentenza n. 261 del 2017 il Ministero dello Sviluppo Economico abbia sottoposto alla Conferenza Stato-Regioni una nuova bozza di D. M. ma che a seguito di plurime trattative non si sia riusciti ad addivenire ad una soluzione condivisa; ciò, secondo la Corte, non può integrare una violazione del canone della leale collaborazione, posto che l’intesa “non pone un obbligo di risultati ma di mezzi”. Così argomentando il giudice delle leggi ha risolto un’ulteriore questione che pareva rimasta insoluta all’indomani della pronunzia n. 251 del 2016 (come evidenziato da G. D’Amico, La sentenza sulla legge Madia, una decisione (forse) troppo innovatrice (23 gennaio 2017), in www.questionegiustizia.it, § 6), ossia quella della natura “debole” o “forte” dell’intesa necessaria a soddisfare il principio di leale collaborazione in sede di procedimento di adozione di decreti legislativi delegati.
In definitiva la pronunzia de qua, pur muovendosi entro l’orientamento inaugurato dalla sentenza n. 251/2016, sembra ridimensionarne la portata, che inizialmente rischiava di apparire davvero dirompente quanto all’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, tanto che non aveva mancato di suscitare forti perplessità (per tutti il redivivo e molto caustico John Marshall, La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, in Giornale di diritto amministrativo, 6/2016, 705).