Ecco perché la Corte costituzionale non ha censurato il referendum sul taglio dei parlamentari e “l’election day” per le regionali
14 settembre 2020
Con le ordinanze nn. 195, 196, 197 e 198 del 13 agosto 2020 la Corte costituzionale si è pronunciata sui quattro conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato in ordine all’abbinamento, nelle date del 20 e 21 settembre 2020, della votazione per il referendum confermativo ex art. 138 Cost. sul testo della legge costituzionale recante «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari» a quella sulle elezioni regionali ed amministrative.
Venendo al dettaglio delle pronunce, con l’ord. n. 195/2020 la Corte costituzionale dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Comitato promotore per il referendum sul testo della legge costituzionale sopra citata. Una delle principali argomentazioni addotta a sostegno della ammissibilità del conflitto di attribuzione muoverebbe dall’assunto che l’applicazione del principio della concentrazione delle consultazioni elettorali anche al referendum confermativo violerebbe le prerogative del corpo elettorale, determinando, «di riflesso», anche una lesione delle attribuzioni costituzionalmente garantite allo stesso Comitato dagli artt. 1 e 138 Cost. La Corte, ancorché costante nel riconoscere la legittimazione del Comitato promotore per il referendum a proporre conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (v. ordd. nn. 169/2011, 172/2009), delimita però la portata delle attribuzioni, nel cui alveo non è riconducibile “in assenza di situazioni eccezionali (…) la pretesa di interferire sulla scelta governativa, tra le molteplici, legittime opzioni, della data all’interno del periodo prestabilito”. Posto che il dettato costituzionale non attribuisce in alcun modo al Comitato promotore per il referendum “una funzione di generale tutela del miglior esercizio del diritto di voto da parte dell’intero corpo elettorale”, il giudice delle leggi rammenta che la dinamica referendaria si inserisce nelle maglie della democrazia rappresentativa, le cui concrete propaggini ben possono vedere la combinazione del voto referendario con l’espressione della tornata elettorale, regionale ed amministrativa.
Con l’ord. n. 196/2020, la Corte costituzionale dichiara l’inammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dall’Associazione +Europa, che censura la previsione nel decreto-legge n. 26/2020 che riduce a un terzo il numero minimo di sottoscrizioni richiesto per presentare liste e candidature nelle elezioni regionali. In questo caso, si pone la questione di chiarire se anche i partiti politici possano considerarsi come “poteri dello Stato”, legittimati a sollevare il conflitto in caso di lesione delle proprie competenze. Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la Corte costituzionale conferma quanto già precedentemente affermato nella propria giurisprudenza, chiarendo che i partiti politici debbono considerarsi organizzazioni proprie della società civile, cui sono certamente riconosciute funzioni pubbliche, non già qualificabili come poteri dello Stato, ossia come organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono (ex plurimis, sent. 1/2014).
Nell’ord. n. 198/2020 il giudice costituzionale è chiamato a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal senatore De Falco nei riguardi del Senato della Repubblica e, «se dichiarato ammissibile» nei confronti Governo della Repubblica e dei Ministri dell’interno e della giustizia, «in quanto responsabili, insieme con il Presidente del Consiglio ex art. 89 c.1 Cost. degli atti del Presidente della Repubblica». Il ricorrente, tra le diverse censure proposte, lamenta che l’approvazione al Senato della legge n. 59/2020 mediante il voto di fiducia avrebbe impedito di esaminare e approvare nel merito «tutte le parti aggiunte, mediante emendamento modificativo o soppressivo delle disposizioni originarie» del d.l. n. 26/2020.
Nel concludere per l’inammissibilità del suddetto conflitto di attribuzione, la Corte costituzionale pare muoversi lungo due diverse argomentazioni. In primo luogo, a giudizio della Corte, le considerazioni del ricorrente paiono rivelare «scarsa chiarezza e coerenza del percorso argomentativo (…) contraddistinto da salti logici e da passaggi privi di conseguenzialità». Si evidenzia, altresì, che vengono esposte, in modo disorganico, critiche vagheggianti «alla legge elettorale, alla riforma costituzionale, all’accorpamento delle consultazioni, all’utilizzo dei decreti-legge e, infine, al procedimento di conversione in legge degli stessi». Proseguendo nell’esame di una potenziale lesione delle attribuzioni proprie del singolo parlamentare, la Corte sottolinea che, pur lamentando il ricorrente numerose lesioni delle proprie prerogative nel corso dello svolgimento dei lavori parlamentari, non sembra possa evincersi tale circostanza, aggiungendo, altresì, che il ricorso proposto risulta del tutto manchevole di qualsivoglia argomentazione bastevole a chiarire, in linea teorica, le attribuzioni in astratto riconducibili al singolo parlamentare e, in successivamente, quali siano state le concrete prerogative oggetto di patente lesione nello svolgimento dei lavori parlamentari.
Infine, con l’ord. n. 198/2020, viene dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato proposto dalla Regione Basilicata. Dopo aver verificato che l’atto di promovimento del conflitto di attribuzione sia stato espressamente qualificato dalla ricorrente come conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, la Corte ribadisce che gli enti territoriali non sono annoverabili in alcun modo tra i “poteri dello Stato” ex art. 134 Cost. e che, in particolare, la Regione, nell’esercizio delle le attribuzioni rientranti nella propria sfera di autonomia costituzionale, non agisce come soggetto appartenente al complesso di autorità costituenti lo Stato, secondo la previsione dell’art. 134 Cost. Esclusa la configurabilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, la Corte respinge, d’altra parte, la possibilità di conversione in conflitto di attribuzione tra enti, in ragione del decorso del termine perentorio di 60 giorni, ai sensi dell’art. 39, comma 2, della legge n. 87/1953.
Nel tentativo di offrire una suggestione finale, si osserva che l’estrema efficacia sinottica, che accumuna le quattro ordinanze, riposando su una solida trama argomentativa che propone in modo illuminato gli orientamenti giurisprudenziali in materia e consegna all’interprete una raffigurazione compiuta delle complesse dinamiche che si intrecciano nel circuito democratico-rappresentativo.
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